Franco Nuti, Rimandi
Franco Nuti, Rimandi.
A cura di Marco Amore, Sezione Papiri della Biblioteca Nazionale – Palazzo Reale, Napoli.
08/05/2015 – 22/06/2015
Le cinque installazioni di Franco Nuti
La mostra “Rimandi” di Franco Nuti presenta cinque installazioni multi-materiale, dislocate lungo il suggestivo percorso che conduce all’Officina e alla Sala dei papiri Ercolanesi della Biblioteca Nazionale di Napoli. Ogni opera stabilisce un legame tra passato e presente. I papiri, sepolti e, paradossalmente, protetti dalla lava, si confrontano con i contenitori di plexiglass che custodiscono pitture enigmatiche.
Nuti preserva la memoria, contrastando il rischio di dimenticanza. Come in un grande caleidoscopio colorato, le immagini si snodano, disvelandosi e in parte coprendosi. Sono frammenti di cose e di corpi che si intrecciano con la materia, dando vita a un equilibrio visionario tra rivelazione e mistero.
Rimandi. Di Marco Amore
Due parole: forma e colori. Queste le coordinate che servono a monitorare la ricerca di Franco Nuti in campo artistico. Un viaggio attraverso la forma – canonica, ellittica, sferica. Nella pura geometria cartesiana.
Di un otto orizzontale. Di una retta che procede fin dove nessuno sguardo potrà mai raggiungerla.
Su alcune delle varie tracce dell’infinito. E i colori. Rosso, giallo, blu.
Colori primari e loro possibili sfumature. Scarlatto, vermiglio, porpora. Giallo Chartreuse, giallo zafferano, giallo pastello. Finanche composti neutrali come l’arancione. Uno spettro non visibile di colori emotivi.
Il noto blu/tristezza di Chagall, dei bluesman degli anni trenta del secolo scorso.
Quindi il tempo. L’entità non cronologica dell’attimo fuggente, l’asincrona simultaneità delle sue ombre, l’assolutismo nella relatività della propria durata.
È l’indagine che Franco Nuti ha intrapreso attraverso il nucleo di un anamnesi su larga scala dell’io.
Di una memoria non solo individuale, fatta di ricordi frammentari e poliedrici, di schemi di cose assimilate o astratte, ma anche collettiva, dove Nuti si affaccia allo specchio di una più ampia rifrazione sociologica, fino alla psicologia di Freud e Jung, a forme di studio che approfondisce dissezionando gli anni con le proprie istanze intrapsichiche, per arrivare ad una penetrazione scientemente teoretica dell’esistenza.
Prendiamo fifty-five (2009), una serie di disegni a matita realizzati su carta velina – qui fragile superficie del ricordo – che giacciono accartocciati neanche fossero stati gettati via, ma in un enigmatico cilindro di plexiglas e con lo scopo di proteggerli, uno scrigno trasparente che sottrae i disegni al mondo esterno, alla curiosità di un probabile spettatore, a cui appare chiaro che essi esistono, senza che lui o lei possano tuttavia saggiarne il contenuto.
Ciò a mio avviso per preservare – come veri e propri ricordi – i souvenir di un passato mai passato; ma soprattutto, credo, per una certa qual volontà inconscia dell’artista di voler nascondere se stesso in qualcosa di assolutamente limpido, di cristallino – nell’esatta metafora del proprio essere – come la superficie dell’acqua, per dimostrare all’eterno Altro che benché egli possa guardargli dentro, ciò non implica il vederne l’essenza.
O, ancora, Mappe celesti e Maps in progress (2007), dove il colore diviene il segnale da seguire in una simbolica topografia cromatica; la rappresentazione di uno spazio, decisamente non mistico e tuttavia emozionale, in cui ognuno rintraccia la tonalità che più gli si addice.
È chiaro che, per comprendere veramente un artista, non basta ammirarne estasiati alcuni lavori.
Paul Klee scrive: l’arte non riproduce quel che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.
Un po’ come fa il tempo, riportando alla luce quel che ancor prima ha sepolto, così anche l’arte rivela quel che un po’ prima ha occultato, trasformando l’artista in un esperto archeologo pronto a riscoprire il feticcio di un antico idealismo, a effondergli nuovo splendore con l’originalità del suo estro, perché le idee non hanno altra scadenza se non quella umana.
Da un simile parallelo, nonché dai molti rimandi e punti di contatto tra le opere di Nuti e i papiri in genere – basta pensare a La macchina del tempo uno/due o Tascabile n.3 (2002/2007), alla struttura di Pagine (2009) in cui fasce di cotone si uniscono insieme come altrettante strisce di cellulosa – nasce l’ipotesi di un intenso confronto con l’Officina dei Papiri Ercolanesi di Napoli, da cui l’artista ha tratto spunto per un’intima riflessione tonale.
Ma le affinità epidermiche non sono l’unica celebrazione dell’armonia tra opere e spazio. Esiste un connubio che va ben oltre la superficie: laddove i papiri rivelano in parte i passaggi di un testo, accade che le opere trovino in parte la loro eloquenza, creando una specie di unione simbolica di grande spessore.