Franco Nuti, Sacrifici
Franco Nuti, Sacrifici.
A cura di Mario de Candia, Lo Studio, Roma.
09/11/1998 – 20/11/1998
Le colonne d'aria di Franco Nuti
Involucri trasparenti, capaci di trattenere al loro interno frammenti di pittura, si ergono nello spazio in posizione verticale.
Sono presenze ieratiche, si isolano l’una dall’altra, come a evocare la difficoltà di entrare in relazione con l’esterno. Una condizione che appartiene profondamente all’essere umano.
Franco Nuti rifiuta l’idea di un’opera come entità unica e autosufficiente. Per lui, il significato emerge solo dall’incontro e dalla sovrapposizione di elementi diversi. Le carte si stratificano, la pittura si frammenta. Il risultato è un insieme di opere perturbanti e incombenti per lo sguardo.
Queste colonne di plastica gonfiate d’aria, sono impalpabili, leggere ma al tempo stesso fisiche, in equilibrio precario tra fragilità e solidità.
A questi lavori, l’artista si dedica da anni, proponendo una ricerca in continua evoluzione in cui la pittura assume una nuova fisionomia fondendosi lucidamente coi materiali extrapittorici.
Sacrifici. Di Mario de Candia
Martyrio.
Una logica sottile, ma ferrea e lineare, unisce biunivocamente – e non solo secondo le regole ben favorevoli della metafora e dell’allegoria – l’esemplarità del sacrificio a quella dell’arte.
Martirio e Arte.
In entrambi i casi si tratta di atti generati, governati e, meglio ancora e più precisamente, disciplinati da solidissime certezze…che sia l’estremo sacrificio di sé ai propri ideali, alla propria fede e credenze profonde o che si tratti di un’immagine prodotta, creata e sorta dalle proprie convinzioni – che di certo meno forti e radicate non sono di quelle della fede – In entrambi i casi, si diceva, si tratta di un atto assertivo che, nella sua sostanzialità scaturisce da “cause” d’esigenza consimili, se non addirittura coincidenti.
La similitudine fra Martirio e Arte, ciò che assimila Martire ad Artista, sta nella convinzione ad entrambi comune che il significato dei loro atti consiste nel rendere utile la sofferenza, la fatica estrema del conseguimento, altrettanto estremo, di una consapevolezza e coscienza di sé, della acquisizione di una certezza di identità all’interno di un sistema di riconoscimento, e la conseguente fermezza a starvici dentro, fino alla più estrema delle conseguenze.
Tale sistema, come ogni sistema di comunicazione, consente, conosciute le sue regole “linguistiche”, di far coincidere l’immagine che si ha di se stessi con l’immagine che di se stessi si vuole offrire e si offre agli altri.
La serenità, così come la santità e la buona comunicazione, transitano attraverso la sofferenza ed il sacrificio.
L’uomo in generale, e più particolarmente ancora Martire e Artista, sono fatti dai loro comportamenti, non dalle parole.
Martire e Artista.
La posta in gioco in entrambi i casi è costituita dal Corpo, come materiale comunicativo per eccellenza.
La disciplina che governa le scelte dell’uno è da considerarsi nell’atto simmetricamente speculare a quella
dell’altro: le rispettive esperienze, visivamente accostate, mostrano come ribaltati, come rovesciati i rispettivi
percorsi e gli aspetti peculiari che li contraddistinguono – la destra dell’uno, per semplificare, corrisponde alla
sinistra dell’altro, l’alto al basso – fino a far considerare le due esperienze distanti e non confrontabili e come
tali sostanzialmente antitetiche.
Così ciò che viene negato dall’uno risulta, nell’atto, affermato dall’altro, ma solo nell’apparenza.
Se per l’arte e l’artista il Corpo è la qualità per eccellenza, la matrice nobile di tutte le rappresentazioni possibili, per il martire lo stesso Corpo non è altro che una quantità, sempre eccellente, ma, pur tuttavia e sempre, nient’altro che materia di scambio sacrificabile sull’altare delle proprie convinzioni. Così sembrerebbe, in questo secondo caso. Ma nella effettività – ancora una consimilitudine con i linguaggi dell’arte che nascondono svelando e svelano nascondendo – la immolazione del Corpo nell’atto dell’estremo, cruento sacrificio di sé, che fa il martire tale, non è altro che la risposta affermativa, affatto sostanziale, della irrinunciabilità alla propria identità, fatta di Corpo e Anima.
Di fronte alle avversità che vogliono prevaricare la sua “anima” piegando il suo “corpo”, il Martire nega il suo Corpo al violento dialogo cui è sottoposto, interrompe i termini di questa “comunicazione” e accelera la fine della “qualità a termine” del suo Corpo.
Proponendola come trascurabile e da lui trascurata, superflua “quantità a termine”, nasconde al carnefice la vera natura della sua complessa identità, indirizzando l’esempio del suo comportamento verso un sistema comunicativo e linguistico assoluto, integrale e comprensibile solo dal suo stesso interno.
Anche nell’Arte, e come fa l’Artista, la questione si pone sempre in termini non di contrapposizione, ma di coabitazione. Coesistenza, è proprio il caso di dire, fra contenente e contenuto, fra la “materia”, quale elemento primo di costituzione e costruzione sensibile delle strutture del linguaggio e del comunicare e lo “spirito” quale comunicazione, fra “finito” e “fine”, fra, per l’appunto, Corpo e Anima.
Se è vero che i comportamenti sono frutto delle intenzioni e che le intenzioni si misurano e giudicano non a partire dai mezzi dispiegati, ma dalle finalità che si prefiggono e dalle mete raggiunte, quelli dell’Artista e del Martire coincidono perfettamente, non solo perché l’Arte, è vocazione anch’essa o perché l’opera d’arte è risultato e frutto di un “fare sacro”, di un mirare a idealità moralmente elevate, ma anche e soprattutto poiché, sostanzialmente, non è altro che l’immagine di una offerta di sé operata dal suo artefice all’interno dell’opera e attraverso il Corpo.
Sacrifici. Di Sandro Cappelletto
Troppi di sacrifici ne ha subiti, ne subisce la musica per sopportarne di ulteriori.
Sacrificio come uso improprio, non rituale, di un orizzonte creativo. Sacrificio che calpesta la musica riducendola a ‘tappeto sonoro’. Consiste qui la violenza disturbante del contemporaneo rapporto con il consumo musicale: l’epoca acusticamente più satura di suoni nella storia dell’uomo, è quella che meno ne rispetta l’identità, la funzione, una consapevole fruizione.
Quando Anna Maria Morbiducci propone degli “accostamenti” tra sguardo e ascolto, tra due diversi procedimenti compositivi, la prima reazione è prudente. Quale forma di scrittura e di segno avrà la priorità, come riusciranno a compenetrarsi i due linguaggi, quale sarà sacrificato all’altro, chi si farà servo di chi?
Il rischio di un accostamento non rituale, non utilmente sacrificale, è forte; la possibilità che la musica si scopra soltanto come arredo sonoro è da evitare come sterile e offensiva verso la stessa autonomia delle creazioni di Monachesi, Nuti e Pieroni.
Ma, a guardar meglio, l’invito si rivela come possibilità di partecipare ad un banchetto di comuni creazioni; quali altri significati il linguaggio della musica saprà donare alle opere già create, e queste come saranno ascoltate dalla fantasia dei musicisti, che scriveranno conoscendole e conoscendo lo spazio e l’occasione della nostra comune fruizione?
Lo stimolo, allora, è diventato cercare intelligenze musicali capaci-disponibili ad essere sedotte dai segni visivi che scandiscono il progetto Sacrifici. Totale è stata, nelle intenzioni, la libertà di scelta all’interno dei diversi linguaggi musicali dell’oggi, nel rigore della qualità.
Diventava possibile tentare tre momenti di metateatro, di incontro non didascalico, ma dialettico di diversi sistemi di segni. La musica non doveva tradurre l’immagine in suono, lo sguardo in ascolto, ma creare altri nessi, sovrapporsi e compenetrarsi, mostrarsi anch’essa. Come avrebbe potuto suonare, queste sculture e la loro diversa fisicità, nella testa e nel cuore dei musicisti, cui sono state richieste opere nuove?
Quali strumenti avrebbero scelto, quali sacrificato?
Il banchetto appariva goloso.
I corpi imprigionati nell’aria di Franco Nuti come una galleria del vento che attende di deflagrare. Lo strumento a fiato, l’aria che diventa materia sonora, pretenderà di donare altra, diversa esistenza a quell’ossigeno rappreso. Senza aria non esiste musica: l’esperienza acustica si diffonde in uno spazio gassoso; se ne venisse privato, anche il suono più potente resterebbe muto.
L’idea visiva della verticalità trova nella concezione stessa della macchina sassofono e nella sua caratteristica impennata timbrica un’associazione architettonica, gestuale.
La disposizione nell’ambiente di questi corpi gelati nell’aria viene reinventata dal gusto teatrale di Eugenio Colombo come stimolo per una performance itinerante, labirinto di suoni e percorsi. Recente, tutta di ambito colto e certamente non definitiva, è la consuetudine della ricezione della musica da parte di una platea seduta e immobile. Il suono si muove, e l’interprete rituale, sacrificale lo ha sempre saputo (intonasse peana o epitalami, ditirambi oppure lamentationes). In piedi, verticale, sta qui anche il pubblico, partecipe non statico di una complessiva – acustica, visiva e spaziale – geometria dello spettacolo.