Franco Nuti, Lo spazio dell'utopia
Franco Nuti, Lo spazio dell’utopia.
A cura di Lidia Reghini di Pontremoli, Centro Documentazione Ricerca Artistica, Luigi Di Sarro, Roma.
24/04/1990 – 12/05/1990
Lo spazio dell'utopia. Di Lidia Reghini di Pontremoli
Il lavoro precedente di Franco Nuti era fondato su una permanenza estrema della rappresentazione: il quadro, in questo senso, era obbligato a trattenere una memoria visiva della realtà.
Macchie di colore opalescente lasciavano intravedere il vago ricordo di una forma. Il quadro, l’opera, in ogni caso, era obbligata a “riportare” i segni del passato, ad esprimere la natura di elementi conoscibili. Era l’estremo tentativo di razionalizzare il senso di un’immagine sfuggente, o forse soltanto un espediente per sfuggire la crescente tentazione dell’astrattismo proponendo gli “avanzi” di un dettato essenzialmente figurativo.
In quest’ottica, Nuti operava un drastico sistema di scelte, obbligando e vincolando gli estremi della propria sensibilità. La pittura in questo senso diveniva un momento di misura, di tragico, estremo conflitto.
L’opera trasmetteva, all’interno di un fitto reticolato ottenuto dall’increspatura della carta, un rimando di possibili segni, di probabili forme-ricordo. La struttura flessibile del disegno determinava una sorta di schema geometrico, un’elastica partitura “a gabbia” che designava la struttura fisica dell’opera: il campo d’azione su cui si sarebbe esercitato il colore.
In questo sistema la memoria della realtà era essenziale e veniva espressa da sedimentazioni successive che si sovrapponevano, si incrociavano sul piano frantumato della carta e della tela. Il rapporto di reciprocità tra gli elementi era assoluto e prioritario, veniva in ogni caso giocato sui due binari della materia: da una parte il rapporto tra il colore dilavato dall’acquarello ed il nulla, la zona non campita; dall’altra la tela e la carta.
I risultati di questo binomio dialettico si misuravano in chiave evocativa, con forme che suggerivano il senso di eventuali, possibili presenze: visioni lontane, arcaiche, disperse nella realtà opalescente e biomorfica del colore.
Oggi assistiamo ad un ribaltamento: la pittura come sintesi estrema, come risultato di un processo interiore diventa sintomo di un movimento coerente, che attraversa trasversalmente tutti gli strati e gli stati della pittura.
Nuti sembra quindi abbandonare le logiche e le attitudini che fino a questo momento avevano governato il suo lavoro; viene così a cadere una certa fissità, una possibile ripetizione di moduli e maniere in virtù di un fare più aperto, disincantato e disinibito. La stessa mano accetta di scoprire e praticare più possibilità.
Inizia così il grande viaggio nella terza dimensione: una pittura che non accetta più di venir relegata ai canonici vincoli della bidimensionalità, ma che anzi cerca il possibile scarto. Così carta e colore superano in spessore la piattezza della tela/superficie: tentano il balzo in avanti. Una possibilità estrema che il colore ha è proprio quella del “farsi” scultura: Nuti azzarda e persegue il filo di quest’ipotesi.
Ma la fissazione del colore, il suo stesso distendersi a più riprese sulla tela, non basta.
Anche la carta entrerà man mano nel gioco complesso dell’osmosi: non più increspandosi ma anzi inspessendosi, creando delle vere e proprie barriere. Viene così garantito l’allestimento di una trama, di un reticolato complesso. Nuti accelera le dinamiche di questo procedimento. L’accelera e l’amplifica propagandolo o sospendendolo in rapporto alle densità fisiche del colore. E’ quindi evidente quanto la carta offra all’artista la possibilità di sottolineare ed evidenziare le logiche costruttive del suo lavoro: la carta tenderà a divenire spessore in assenza del colore e viceversa. E’ questa la logica saliente di un bilanciamento. In questa situazione la pittura è ancora in grado di serrare, garantire allo sguardo la presenza di una “memoria”. Ma non più come evocazione quanto piuttosto come orma, traccia di un passaggio avvenuto sulla tela. La costruzione in questi termini è essenzialmente metaforica, là dove tutto concorre alla formalizzazione di un simbolo, di un segno: il fantasma di un ricordo che si trincera proprio sotto gli strati pesanti del colore.
In Origini (1989), come in altri lavori (Isola ri-costruita, 1989), ogni sovvertimento, ogni evoluzione cela il segno tangibile di altri possibili significati, la sagoma di un’altra probabile realtà. Spetta allo sguardo attento e ravvicinato scoprirne a fisionomia. Dunque, forme che nascondono altre forme: la volontà di scrivere, cancellare per poi ricordare e riscrivere di nuovo. Così all’infinito.
E’ come se ci trovassimo di fronte ad un qualcosa di tellurico: un magma che ribolle dentro gli strati del colore, una consistenza fisica che sovrintende e definisce la formazione dell’immagine.
l processo eversivo e di costante avanzamento che sta attraversando il lavoro di Nuti non è nient’altro che un sintomo, il segno più evidente di una differente concezione del mondo e dello spazio.
Questo significa, in termini pratici, offrire alla pittura la possibilità ultima di un ribaltamento, di una metamorfosi prospettica e dimensionale.
Non è un caso che proprio in tempi recenti Nuti abbia avvertito l’impossibilità di perseguire una strada unicamente fondata sulla disciplina del colore e della pittura. Si è dato dunque dei traguardi, che formalmente sono divenuti nel tempo dei veri e propri obiettivi. Obiettivi che sempre più hanno avvicinato la struttura del quadro ad un elemento scultoreo, architettonico. L’opera d’arte non è più poesia, frammento, quanto piuttosto realtà quotidiana, corpo che si inserisce nel paesaggio urbano per entrare nell’orizzonte umano.
Lo spazio dell’utopia si è dunque colmato.
L’utopia di praticare la pittura con occhi e mani da scultore. Rimangono le enormi tele che non contraddicono la logica dei piccoli formati, ma anzi ne costituiscono una differente applicazione spaziale.
Questo significa poter attraversare liberamente il luogo del piccolo e del grande formato. E’ un cammino che si compie esplicitamente, senza mediazioni di sorta, accogliendo e serrando le differenti consuetudini spaziali.
Opere come Le stanze… della felicità (1989, cm. 120 x 170) e come Senza titolo (1989, cm 30 x 60) ribadiscono il medesimo concetto: imporre la legge liberatoria del colore e dello spessore. Ma non solo.
In lavori precedenti come Il pescatore (1987), Nuti si concentrava sull’allestimento organico di uno scenario uniforme: i pannelli, cioè le tele, avevano un “senso”, una sequenza. Questo ha significato per l’artista la contraddittoria volontà di fissare il segno di una concezione dinamica della pittura nello spazio.
All’interno di questo sistema rigidamente razionale, tutto aveva un ordine ed ogni parte garantiva una funzione: offrire la visione complessiva dell’opera.
La caduta di fissità, la sgretolazione era un processo in divenire, coerente e formalizzato: Nuti dava cioè un ordine, scandiva e definiva la logica della frantumazione. I piccoli pannelli di Senza titolo (1988) si ordinavano in una sequenza di 1-2-3, orizzontalmente, come momento di un racconto pittorico omogeneo.
Oggi assistiamo ad un differente atteggiamento che non nega le premesse del passato ma bensì si costituisce come una logica conseguenza.
Nuti avversa i risultati dell’unicità: l’opera diviene qualcosa di significativo attraverso la commistione delle differenti parti. Poco importa ove si dispongono i singoli elementi. Quel che conta è l’effetto finale, l’allestimento scenografico di uno spazio parateatrale, una prospettiva capace di indurre e trattenere gli elementi della memoria.
In questo senso l’opera è in continua espansione, è un corpo che pulsa, caldo, capace di sgretolare ed infrangere ogni eventuale categoria di unicità. Là dove unicità diviene sintomo di staticità. Ecco quindi che la tela assume un diverso assetto, arrovellandosi, accostandosi l’una su un’altra, senza ordine apparente. L’unica via praticabile è dunque quella dello scarto: scarto spaziale e prospettico, che catapulta l’opera fuori delle canoniche dimensioni orizzontale/verticale.
Il quadro, in questa situazione, negherà la propria fisionomia per assumerne altre, diverse. Non più quadro ma oggetto in costante divenire, oggetto/scultura multifunzionale. Forma che declina ogni eventuale “piacere” dello sguardo per divenire piuttosto elemento scomodo, ingombrante, dal formato mal esponibile.
In questo senso il quadro non è più un vanto, lo strumento capace di solleticare l’ego dell’artista, ma piuttosto una struttura perturbante, incombente per lo sguardo: la sua fisionomia uccide qualsiasi eventuale mediazione di comodo. Nega, in parole povere, i significati e le logiche della percezione.
Il percorso proposto dall’opera va dall’accostamento alla repulsione, alla rovina. Quest’itinerario sovrintende la genesi di questi ultimi lavori che sembrano proporre una differente fisionomia coniugata con una felice, disincantata esibizione dei mezzi extrapittorici.
Enormi tele si accalcano, si assommano, si frantumano spazialmente in una sorta di dislessia visiva. E’ questa la sfida che Nuti impone allo sguardo, il segno di una visione data per frammenti improvvisi.
E’ ormai lontano il giorno del blow-up. Il giorno micidiale dell’avvicinamento, dell’ordine precostituito. Quel che conta oggi è solo la sperimentazione dinamica dell’inferenza delle parti in una porzione di spazio.
Opere come oggetti, come elementi di anti-seduzione. Le colate pesanti del colore strabordano (Finestra, 1989), non sono volutamente contenute. Le increspature sempre più evidenti della carta costituiscono l’orografia dell’opera, creano una barriera, una sorta di schermo tra l’occhio e il colore.
Una negligenza non casuale organizza dunque il ritmo della rappresentazione in pause e sequenze non ordinate tra gli improvvisi squarci di bianco che si aprono nella cortina pittorica.
Questo significa per Nuti un nuovo atteggiamento nei confronti della pittura: la coscienza del mestiere; è questo il senso estremo di una conoscenza e consapevolezza delle tecniche, della interazione tra colore e materia, tra strati e emozioni. Ciò permette l’apertura e il libero transito. Una circolazione senza frontiere tra gli stili e i modi della pittura.
Opere come oggetti, senza per questo esaltare una metafisica della materia. Anzi. Carte, colori, spessori vengono usati come impianti neutri, tecniche che favoriscono e determinano gli esuberanti sensi di una forma pittorica che si muove liberamente nello spazio.
Non è più la pittura a fingere la realtà, ma è la realtà di un nuovo “oggetto” che finge la pittura.