Franco Nuti, EIS

Franco Nuti, EIS.

A cura di Giovanni Andrea Semerano, La Camera Verde, Roma. 
14/03/2024 – 15/05/2024

EIS. Di Giovanni Andrea Semerano

Tra la tela e il muro le crepe sconfinano fin dentro le trasparenze trasformate in cancellature di tempo, come un luogo archeologico, tele che scavano, trovano, lasciano.
Un’indagine su cosa resta della figura, oggetti ritrovati da una memoria che li fissa dopo uno scavo sulle superfici, là dove la superficie concede uno sguardo alla profondità.
Guardando velocemente le tele di Franco Nuti viene in mente l’idea di un muro bianco, il muro di una cella?
Restano numerose tracce, ricordi?
Graffiti? Probabili figure di un ritorno, da dove? Da un naufragio?
O è lo sguardo di chi con metodo e analisi sta scavando nel deserto umano e trova strati su strati di oggetti fantasma, camere mentali, ciotole che mantengono la sete della sapienza?
Cosa dobbiamo trovare? Cosa dobbiamo trasformare? Cosa osservare?

La pittura di Franco Nuti si nutre di segni silenziosi, un incredibile sviluppo di colori, apparentemente assenti, si muove nell’opera, sono nature morte in dissoluzione? oppure è la luce dell’alba che attende che i colori rischiarino e le composizioni prendano corpo? Oppure la memoria è in crisi non è più capace di tenere a fuoco un oggetto in prossimità di una cecità umana che non lascia scampo al vedere.

C’è in verità tanta luce in queste opere, e quando i contenuti figurativi si affacciano sulla tela, le intenzioni vivono di attimi ben precisi che il segno lascia andare nelle diverse parti delle superfici, in un’idea della polvere che segna traiettorie sospese nella creazione di minimi dettagli, dove il minimo è sempre ben presente come atto di coscienza. Come se a disegnare fosse una matita di cristallo.
Le orme di Franco Nuti cementificano pareti di senso, strato dopo strato, 
tela dopo tela. Siamo così presi da una corrente che non crea vortici, non concede spazio all’impulso. Attraverso un preciso equilibrio le forme fanno le sembianze, rigenerano il bianco, trovano il loro essere pittura.

L’opera di Franco Nuti segue un tragitto trasparente ricco di segni, senza codici o cavilli, tra la sabbia e il tempo.
Una continua interrogazione sul principio e la fine. Chi guarda queste tele, non può non sentire la responsabilità di vedere la storia che c’è stata e che ci sarà.
Eis è così un percorso nel e del dubbio. Una dissoluzione. Un voler fermarsi e aspettare che siano gli oggetti a suggerire i contorni, uno spazio del sentimento ridotto a una trasparenza necessaria.

La poesia di Franco Nuti crea zone di pittura essenziali, isolate, non c’è la ricerca dell’estro, nessuna fuga astratta ma una determinata costruzione di un “ordine” dello spazio-tela ad eliminare l’idea stessa di scena, rifuggendo il gioco delle sensazioni, nel tentativo di compiere quell’indagine che già Villa auspicava nel suo “Progetto di una comunità di artisti dedita alla creazione e al recupero di una diaconia dell’immaginario”, un testo geniale edito nel volume Emilio Villa poeta e scrittore nelle edizioni Mazzotta, a cura di Claudio Parmiggiani (Milano, 2008).

«Così è difficile rescindere da tutto il corpo le nature dell’animo e dell’anima, senza che tutto si dissolva.
Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall’origine, si producono insieme fornite d’una vita di eguale destino: ed è chiaro che ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra, le facoltà del corpo e dell’anima separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente comuni spira dall’una e dall’altra quel senso acceso in noi attraverso gli organi»1.

Questo passo tratto dal terzo libro del De rerum natura, mi pare particolarmente calzante ad introdurre l’opera di un artista come Franco Nuti, che nella sua produzione condensa in una stretta reciprocità le essenze, e direi anche le urgenze, dell’anima, del corpo e della mente.
Cos’è, in fondo, se non il segno di una sostanziale unità l’oggetto che egli recupera dalla memoria ponendolo quale
perno dell’immagine artistica? Un’unità, anzi, che non si conclude entro i confini del corpo dell’osservatore, che attraverso l’operazione artistica medita sulla realtà, ma che si estende all’osservato, a quel corpo del mondo che è ogni singolo oggetto/motivo che si ponga all’attenzione dei nostri occhi e, con essi, dell’anima.
Difficile non scorgere infatti, sotto le eleganti velature di questo ciclo di dipinti, la volontà di ripercorrere un passaggio, un attraversamento compiuto all’interno di una dimensione “altra”, ma allo stesso tempo condivisa, sentita propria, come se l’affondo dello sguardo bastasse ad immergersi in una alterità che diviene sempre meno estranea.
E anzi, in questo incontro che la memoria suggella, è forse espresso il senso più profondo di quell’umanità, che altro non è se non continuità con l’altro, radice e motore, per Nuti, dell’atto artistico.
Gli oggetti che l’artista ritrae – e che vediamo sommersi, volutamente, da una coltre di gesso e pastelli a olio – sono oggetti che compongono la città, sono un racconto della sua storia odierna, in cui l’oggetto stesso è contemporaneamente elemento evocato ed evocante.
Come un flâneur baudelairiano che attraversa la folla, l’artista attraversa la città come un organismo totalizzante in
cui identificare tracce di un altro passaggio, delle molteplici, diverse presenze che lo compongono e che ne determinano la specificità.
Ogni frammento, ogni dettaglio, siano essi i resti di un cassonetto o la casa costruita d’occasione sul ciglio di una strada, è un sintomo di vita da non dimenticare.
L’idea della serie, che semplicemente associa un numero a ogni pezzo dipinto, nasce nel 2019 e impegna l’artista per oltre quattro anni.
Ogni singola opera è titolata semplicemente “banner”, una definizione ispirata probabilmente dal modo stesso in cui queste opere si presentano, come rotoli da aprire e far scorrere poi sulla parete che li accoglierà.
Tutte numerate, come in un archivio ideale di memorie, ogni opera ricorda un’antica stele, fatta da una devozione anch’essa antica, quella della ricerca dell’altro, dell’umano, anche tra le macerie del moderno.

Alla velina o alla plastica, che avevano contraddistinto sperimentazioni precedenti, qui si sostituisce uno strato di gesso liquido, talvolta sostituito dall’olio a pastello, che mantiene una consistenza materica maggiore, capace di realizzare spessori.
In questa autobiografia al plurale che l’artista costruisce con una serie di sconfinamenti verso la vita di chiunque egli incontri nelle sue peregrinazioni urbane, «la nebbia del tempo», come spiega egli stesso, «è il leitmotiv che trasforma il ricordo in un presente interrogativo», in cui ci si chiede se la nostra possa ancora essere l’era delle utopie.
Nel gruppo di tele composte per questa mostra ritroviamo così tutti i temi della ricerca di Nuti, la memoria, l’attenzione alla natura e con essa all’uomo, la sperimentazione sui materiali e, non in ultimo, il valore intrinsecamente critico attribuito all’operare artistico, che qui si manifesta con la scelta di proporre la lettura dell’opera in una modalità inversa rispetto al consueto (le tele infatti si leggono dal basso verso l’alto e non viceversa).
Ma è anche una rinnovata visione dello spazio che, insieme al tempo, interviene a dare una particolare fisionomia alla poetica dell’artista.
Riprendendo le parole di Foucault, altro autore insieme a Lucrezio particolarmente amato da Nuti, la contemporaneità è l’epoca dello spazio.
«Lo spazio nel quale viviamo, dal quale siamo chiamati fuori da noi stessi, nel quale si svolge completamente l’erosione della nostra vita, del nostro tempo e della nostra storia, questo spazio che ci rode e ci corrode, è anch’esso uno spazio eterogeneo. Detto altrimenti, noi non viviamo all’interno di un vuoto che si colorerebbe di riflessi cangianti, viviamo all’interno di un insieme di relazioni che definiscono delle collocazioni irriducibili le une alle altre e che sono assolutamente sovrapponibili»2.

Questa «sovrapposizione delle esperienze», intuita in una chiave straordinaria dal filosofo francese, da cui scaturisce la possibilità della relazione, è al centro di questo lavoro di Nuti, in cui è l’interazione stessa il movente per la nascita delle composizioni. E il titolo della mostra, recuperando il significato di είϛ (eis, traducibile in un “volgere lo sguardo verso…”), ce lo rivela chiaramente.

La centralità della relazione è qui dichiarata anche da una vera e propria ricostruzione dello spazio, attraverso la collocazione, evidentemente installativa, delle tele e, ancora, nel senso che esse ci trasmettono, con lo slancio verticale, di ascensionalità, di sacralità, rimando quest’ultima al significato della relazione stessa.

Lo spazio, per Nuti, è sempre uno spazio del sacro. Ricordo una sua mostra di una ventina di anni fa, in duale con Eugenio Colombo, di cui lessi il catalogo. Il titolo era Sacrificium, in sè una definizione, quasi, dell’arte contemporanea e della sua paradossale condizione, in bilico tra l’ambivalenza, tra l’estrema diffusione che oggi la caratterizza e lo svilimento dei suoi contenuti, della sua identità, della sua funzione.
A questa evidenza rispondevano gli artisti con un’esposizione in cui Nuti presentava una serie di figure imprigionate nella plastica, in uno spazio che Sandro Cappelletto nel suo testo per l’occasione ebbe a definire uno «spazio gassoso»3 in cui ogni suono è impossibile. Uno spazio che costringe a un silenzio coatto queste esistenze così rappresentate, ma pur sempre uno spazio.

Ma arriviamo a questi ultimi anni, a una ricerca rinnovata ma ancora, come si è detto, in stretta connessione con i temi della memoria e dei luoghi.
È il 2018 Nuti realizza una serie di piccole sculture in argilla cruda che posizionerà all’interno della chiesa di Santa Maria in Grotta, a Sessa Aurunca. Anche qui il titolo, questa volta dell’installazione, è altamente significativo, riprendendo dal latino specula l’idea di un osservatorio di vedetta, quello dell’occhio dell’arte.
Nel suggestivo antro della grotta, in uno spazio più simile all’oscurità che alla penombra, queste sculturine vengono collocate su dei piatti, di dimensioni altrettanto modeste, ma che hanno per Nuti un grande valore
affettivo, perché sono il risultato di uno dei suoi ultimi laboratori tenutosi in uno dei centri di salute mentale di Roma.
Ogni scultura ha in sé una cavità che accoglie una candela, brillando così di luce propria all’interno della perenne notte della grotta. Ogni piccolo pezzo, forgiato in una forma particolare e distintiva dall’artista, è una grande metafora dell’essere umano e il loro creatore, deus ex machina dell’installazione, è anche osservatore che contempla il creato, divenuto ormai altro da sè, dotato da vita autonoma.
La serie di sculture realizzate per questa mostra ha una qualità molto simile a quella del lavoro di Sessa Aurunca. Anch’esse plasmate in argilla, se ne differenziano nella tecnica per l’intervento del colore, che in colature di un bianco opaco ricorda il ceruleo spessore che nelle tele provoca un effetto di offuscamento, simile a quello di una memoria che non vuol riemergere nitidamente.
Sono anch’essi oggetti recuperati dal passato, come ci svela la loro forma a metà o, ancora, l’effetto primordiale che mantengono, rimandando al processo della memoria come a un processo senza tempo, ma dotato di uno spazio e di una fisicità ben precisi.
Come singoli brani poetici, queste sculture aggiungono ancora un contenuto, stavolta drammatico, alla storia dell’uomo, ci avvertono che qualcosa si è rotto, che si è perso il sogno di una società tra pari, in cui il principio di uguaglianza è destinato a svanire come uno scomodo ricordo.
È allora forse qui più che altrove, in questo cercare continuo, inarrendevole, gli ultimi resti di quell’amore per l’altro che ancora può essere il primo avamposto di un’inestinguibile sacralità, che forte si ode la lezione di Foucault, del suo grande pensiero sulla “differenza”, diremmo oggi, su quelle forme della diversità che, mortificate ancora dall’incomprensione, sono in fondo l’espressione più onesta della ragione e della coscienza umane.


1 – Lucrezio, De rerum natura, III, 329-336.

2 – M. Foucault, Spazi altri, I luoghi delle eterotopie, Mimesis Edizioni, Milano, 2011, p. 22.

3 – S. Cappelletto, Suoni per un’esposizione, in M. de Candia (a cura di), Sacrifici. Franco Nuti/Eugenio Colombo, 09/11/98, Associazione culturale Lo studio, Roma, Catalogo della mostra.