Franco Nuti, ὁράω

Franco Nuti, ὁράω.

Con un testo di Marco Palladini, MAC – Museo d’Arte Contemporanea del Piccolo Formato, Guarcino
04/12/2024 – 12/01/2025

La verità del vedere. Di Marco Palladini

Tutti guardano, ma soltanto alcuni ‘vedono’. Tra quelli che ‘vedono’, ossia hanno delle visioni vi sono gli artisti e certi artisti più di altri. Per esempio, gli artisti visivi che affidano alle immagini, alla forza impattante delle immagini il senso stesso e ultimo del loro lavoro.
Stavo per dire del loro poiein: un fare che è un creare, un creare poetico che genera qualcosa che prima non c’era.

Franco Nuti ha la qualità artistica di un esploratore dei segni che si materializzano sulla carta o sui teli o in forma tridimensionale come se provenissero da territori incogniti della mente, da luoghi falotici dell’anima per andare a comporre non tanto delle immagini, secondo diceva Toti Scialoja di sé, ma delle visioni.
E la visione che cos’è se non un’interfaccia fra il Dentro e il Fuori?
La visione si colloca in un punto di intersezione tra il reale e l’irreale e va a costituire un mondo poetico che riverbera l’immaginario dell’artista, il modo in cui egli si rapporta al mondo e lo traduce o trasduce in un insieme che sfugge alla parte razionale del soggetto e rivela del suo nucleo extra-razionale il pathos profondo, ossia quella passione visionaria, talora oracolare, del vedere oltre la superficie della realtà.
Viviamo in un tempo iper-eidetico, superbarocco che produce quantità sterminate, inconsulte di immagini. Ma questa epochè di ipertrofia immaginistica è, per ciò stesso, come rilevava Jean Baudrillard, un’epoca iconoclasta, non perché distrugge tali immagini, ma perché si origina «una profusione di immagini in cui non c’è nulla da vedere».
Ecco allora il senso peculiare di un’arte come quella di Franco Nuti che, versus il ‘nulla da vedere’, al contrario vede e fa vedere anche o, soprattutto, nel momento in cui si sottrae, sembra denegarsi (basti pensare alle proverbiali cancellature di Emilio Isgrò). 

L’installazione costituita da decine e decine di disegni arrotolati e preclusi (Jacques Lacan avrebbe detto forclusi) allo sguardo dei visitatori è l’esempio perfetto di un nascondimento che sprigiona una doppia visione: quella della installazione in sé, come stele o totem o gesto d’artista; e quella dei disegni occultati come un segreto o un mistero che lasciano campo aperto all’immaginazione di chi guarda, che può appunto immaginare tutto o il
contrario di tutto.
Come nella celebre “Merda d’artista” (1961) di Piero Manzoni dove la visione delle novanta scatolette di latta si incrociava con la visione forclusa delle feci ivi incluse – ma c’erano? Non c’erano?
In questa insolubile ambiguità risaltava, con perdurante anfibologica ironia, l’opera manzoniana.
Così, del pari i rotoli di Nuti, che un poco mi fanno pensare ai mitici Rotoli del Mar Morto, possono contenere o non contenere dei disegni, ma il punto cruciale non è questo, è l’ambiguità o l’enigma della visione negata che accende la fantasia e ribadisce che il fare arte è, in ogni caso, la via più giusta per ricercare la salvezza dal mondo. 
Egualmente il piano in cui l’artista ha disposto i suoi eterocliti oggetti-scultura celibi o amebici si configura come un paesaggio poetico desituato, disorientante o stupefacente, quasi magicamente immacolato che possiamo supporre segretamente abitato dagli “angeli tremendi” di Rainer Maria Rilke: «Poiché il bello / è solo l’inizio del terribile, che ancora noi sopportiamo, / e lo ammiriamo così, ché quieto disdegna / di annientarci…».

Ecco, la bellezza nell’arte contemporanea esige una netta distinzione tra il sentimentale e il sensibile.
Il sentimentale finisce quasi sempre per divorare gli oggetti del culto delle immagini, tanto più in un tempo bruttato dalla dittatura/dettatura del ‘politicamente corretto’ e della ‘cancel culture’.
Il sensibile, invece, dà luogo ad un vedere che, come nel teatro della crudeltà di Antonin Artaud, è un crocevia tra l’essere e il nulla.
La sensiblerie di Franco Nuti bypassa l’emotività banale e cerca quell’emozione estetica che getta un ponte sull’abisso del niente e concede all’arte il privilegio ovvero la coscienza di sognare se stessa. I multipli disegni di Nuti sono impronte oniriche, orme fantasmatiche, contorni labili, esili silhouettes, sgranate macule colorate, emersioni dall’oscuro e dall’indefinito, sul confine tra plenitudine e vuotitudine. E gettano la luce su una visione  che è sempre disfatta della visione, ossia un inafferrabile vedere che cattura una forma, la epifanizza e subito dopo la rende evanescente. 

Alcuni disegni verticali, raggruppati, fallomorfici o priapici mi fanno pensare alle famose bottiglie di Giorgio Morandi, defunzionalizzati contenitori di liquidi ridotti a una statica rappresentazione di enigmatici oggetti-simbolo o feticci; oppure ai megaliti di Stonehenge, una criptica installazione di pietre sacrali adibite, forse, ad osservazioni astronomiche oggi incomprensibili. 

La visione di Nuti anch’essa si defunzionalizza e non cade nel tranello di fornire titoli o insegne alle sue opere che sarebbero svianti perché sposterebbero il focus sulle parole e non sul puro atto del vedere come sforzo, tensione a vedere oltre. 

L’arte di Nuti non paralizza, non pitonizza lo sguardo, fa muovere la vista (volendo l’ultra-vista) di contro alla paura di non capire: ciascuno capisce secondo le proprie possibilità, da ognuno si lascia vedere secondo le sue necessità. L’arte di Nuti mi fa pensare a Simenon che asseriva: “Macché ispirazione, traspirazione!”. 
Ovvero sudore, fatica, tanto lavoro di progettazione e minuziosa esecuzione con tutto il know-how, il concreto sapere artigianale che possiede ogni vero artista, che poi lo maschera con la leggerezza, la nitidezza, la mirabile compiutezza dell’opera finita.
L’artista 
è dunque un fingitore? Certamente, ma nel senso che intendeva Jean Cocteau: «Je suis un mensonge qui dit toujours la verité».