Testi critici
Questa sezione raccoglie testi critici su Franco Nuti. Si tratta di scritti firmati da curatori e critici d’arte che hanno analizzato la sua opera da diversi punti di vista. Alcuni contributi provengono da contesti culturali differenti, ma si rivelano ugualmente capaci di entrare in dialogo con la sua ricerca.
Tutti hanno riconosciuto nel suo lavoro un terreno fertile per la riflessione e il confronto. I testi approfondiscono temi centrali del suo percorso artistico, come la tensione tra presenza e assenza. Il rapporto con la memoria attraversa ogni analisi. Ricordi, tracce e frammenti emergono come elementi da preservare, interrogare o evocare.
I contributi provengono da cataloghi, pubblicazioni monografiche, brochure e libri realizzati in occasione di progetti culturali a cui Franco Nuti ha partecipato.
La verità del vedere. Di Marco Palladini
Tutti guardano, ma soltanto alcuni ‘vedono’. Tra quelli che ‘vedono’, ossia hanno delle visioni vi sono gli artisti e certi artisti più di altri. Per esempio, gli artisti visivi che affidano alle immagini, alla forza impattante delle immagini il senso stesso e ultimo del loro lavoro.
Stavo per dire del loro poiein: un fare che è un creare, un creare poetico che genera qualcosa che prima non c’era.
Franco Nuti ha la qualità artistica di un esploratore dei segni che si materializzano sulla carta o sui teli o in forma tridimensionale come se provenissero da territori incogniti della mente, da luoghi falotici dell’anima per andare a comporre non tanto delle immagini, secondo diceva Toti Scialoja di sé, ma delle visioni.
E la visione che cos’è se non un’interfaccia fra il Dentro e il Fuori?
La visione si colloca in un punto di intersezione tra il reale e l’irreale e va a costituire un mondo poetico che riverbera l’immaginario dell’artista, il modo in cui egli si rapporta al mondo e lo traduce o trasduce in un insieme che sfugge alla parte razionale del soggetto e rivela del suo nucleo extra-razionale il pathos profondo, ossia quella passione visionaria, talora oracolare, del vedere oltre la superficie della realtà.
Viviamo in un tempo iper-eidetico, superbarocco che produce quantità sterminate, inconsulte di immagini. Ma questa epochè di ipertrofia immaginistica è, per ciò stesso, come rilevava Jean Baudrillard, un’epoca iconoclasta, non perché distrugge tali immagini, ma perché si origina «una profusione di immagini in cui non c’è nulla da vedere».
Ecco allora il senso peculiare di un’arte come quella di Franco Nuti che, versus il ‘nulla da vedere’, al contrario vede e fa vedere anche o, soprattutto, nel momento in cui si sottrae, sembra denegarsi (basti pensare alle proverbiali cancellature di Emilio Isgrò).
L’installazione costituita da decine e decine di disegni arrotolati e preclusi (Jacques Lacan avrebbe detto forclusi) allo sguardo dei visitatori è l’esempio perfetto di un nascondimento che sprigiona una doppia visione: quella della installazione in sé, come stele o totem o gesto d’artista; e quella dei disegni occultati come un segreto o un mistero che lasciano campo aperto all’immaginazione di chi guarda, che può appunto immaginare tutto o il
contrario di tutto.
Come nella celebre “Merda d’artista” (1961) di Piero Manzoni dove la visione delle novanta scatolette di latta si incrociava con la visione forclusa delle feci ivi incluse – ma c’erano? Non c’erano?
In questa insolubile ambiguità risaltava, con perdurante anfibologica ironia, l’opera manzoniana.
Così, del pari i rotoli di Nuti, che un poco mi fanno pensare ai mitici Rotoli del Mar Morto, possono contenere o non contenere dei disegni, ma il punto cruciale non è questo, è l’ambiguità o l’enigma della visione negata che accende la fantasia e ribadisce che il fare arte è, in ogni caso, la via più giusta per ricercare la salvezza dal mondo.
Egualmente il piano in cui l’artista ha disposto i suoi eterocliti oggetti-scultura celibi o amebici si configura come un paesaggio poetico desituato, disorientante o stupefacente, quasi magicamente immacolato che possiamo supporre segretamente abitato dagli “angeli tremendi” di Rainer Maria Rilke: «Poiché il bello / è solo l’inizio del terribile, che ancora noi sopportiamo, / e lo ammiriamo così, ché quieto disdegna / di annientarci…».
Ecco, la bellezza nell’arte contemporanea esige una netta distinzione tra il sentimentale e il sensibile.
Il sentimentale finisce quasi sempre per divorare gli oggetti del culto delle immagini, tanto più in un tempo bruttato dalla dittatura/dettatura del ‘politicamente corretto’ e della ‘cancel culture’.
Il sensibile, invece, dà luogo ad un vedere che, come nel teatro della crudeltà di Antonin Artaud, è un crocevia tra l’essere e il nulla.
La sensiblerie di Franco Nuti bypassa l’emotività banale e cerca quell’emozione estetica che getta un ponte sull’abisso del niente e concede all’arte il privilegio ovvero la coscienza di sognare se stessa. I multipli disegni di Nuti sono impronte oniriche, orme fantasmatiche, contorni labili, esili silhouettes, sgranate macule colorate, emersioni dall’oscuro e dall’indefinito, sul confine tra plenitudine e vuotitudine. E gettano la luce su una visione che è sempre disfatta della visione, ossia un inafferrabile vedere che cattura una forma, la epifanizza e subito dopo la rende evanescente.
Alcuni disegni verticali, raggruppati, fallomorfici o priapici mi fanno pensare alle famose bottiglie di Giorgio Morandi, defunzionalizzati contenitori di liquidi ridotti a una statica rappresentazione di enigmatici oggetti-simbolo o feticci; oppure ai megaliti di Stonehenge, una criptica installazione di pietre sacrali adibite, forse, ad osservazioni astronomiche oggi incomprensibili.
La visione di Nuti anch’essa si defunzionalizza e non cade nel tranello di fornire titoli o insegne alle sue opere che sarebbero svianti perché sposterebbero il focus sulle parole e non sul puro atto del vedere come sforzo, tensione a vedere oltre.
L’arte di Nuti non paralizza, non pitonizza lo sguardo, fa muovere la vista (volendo l’ultra-vista) di contro alla paura di non capire: ciascuno capisce secondo le proprie possibilità, da ognuno si lascia vedere secondo le sue necessità. L’arte di Nuti mi fa pensare a Simenon che asseriva: “Macché ispirazione, traspirazione!”.
Ovvero sudore, fatica, tanto lavoro di progettazione e minuziosa esecuzione con tutto il know-how, il concreto sapere artigianale che possiede ogni vero artista, che poi lo maschera con la leggerezza, la nitidezza, la mirabile compiutezza dell’opera finita.
L’artista è dunque un fingitore? Certamente, ma nel senso che intendeva Jean Cocteau: «Je suis un mensonge qui dit toujours la verité».
Dalla brochure della mostra ὁράω, 2024/2025
EIS. Di Giovanni Andrea Semerano
Tra la tela e il muro le crepe sconfinano fin dentro le trasparenze trasformate in cancellature di tempo, come un luogo archeologico, tele che scavano, trovano, lasciano.
Un’indagine su cosa resta della figura, oggetti ritrovati da una memoria che li fissa dopo uno scavo sulle superfici, là dove la superficie concede uno sguardo alla profondità.
Guardando velocemente le tele di Franco Nuti viene in mente l’idea di un muro bianco, il muro di una cella?
Restano numerose tracce, ricordi?
Graffiti? Probabili figure di un ritorno, da dove? Da un naufragio?
O è lo sguardo di chi con metodo e analisi sta scavando nel deserto umano e trova strati su strati di oggetti fantasma, camere mentali, ciotole che mantengono la sete della sapienza?
Cosa dobbiamo trovare? Cosa dobbiamo trasformare? Cosa osservare?
La pittura di Franco Nuti si nutre di segni silenziosi, un incredibile sviluppo di colori, apparentemente assenti, si muove nell’opera, sono nature morte in dissoluzione? oppure è la luce dell’alba che attende che i colori rischiarino e le composizioni prendano corpo? Oppure la memoria è in crisi non è più capace di tenere a fuoco un oggetto in prossimità di una cecità umana che non lascia scampo al vedere.
C’è in verità tanta luce in queste opere, e quando i contenuti figurativi si affacciano sulla tela, le intenzioni vivono di attimi ben precisi che il segno lascia andare nelle diverse parti delle superfici, in un’idea della polvere che segna traiettorie sospese nella creazione di minimi dettagli, dove il minimo è sempre ben presente come atto di coscienza. Come se a disegnare fosse una matita di cristallo.
Le orme di Franco Nuti cementificano pareti di senso, strato dopo strato, tela dopo tela. Siamo così presi da una corrente che non crea vortici, non concede spazio all’impulso. Attraverso un preciso equilibrio le forme fanno le sembianze, rigenerano il bianco, trovano il loro essere pittura.
L’opera di Franco Nuti segue un tragitto trasparente ricco di segni, senza codici o cavilli, tra la sabbia e il tempo.
Una continua interrogazione sul principio e la fine. Chi guarda queste tele, non può non sentire la responsabilità di vedere la storia che c’è stata e che ci sarà.
Eis è così un percorso nel e del dubbio. Una dissoluzione. Un voler fermarsi e aspettare che siano gli oggetti a suggerire i contorni, uno spazio del sentimento ridotto a una trasparenza necessaria.
La poesia di Franco Nuti crea zone di pittura essenziali, isolate, non c’è la ricerca dell’estro, nessuna fuga astratta ma una determinata costruzione di un “ordine” dello spazio-tela ad eliminare l’idea stessa di scena, rifuggendo il gioco delle sensazioni, nel tentativo di compiere quell’indagine che già Villa auspicava nel suo “Progetto di una comunità di artisti dedita alla creazione e al recupero di una diaconia dell’immaginario”, un testo geniale edito nel volume Emilio Villa poeta e scrittore nelle edizioni Mazzotta, a cura di Claudio Parmiggiani (Milano, 2008).
Dal catalogo della mostra personale Eis, 2024
L’arte e lo sguardo: appunti per Franco Nuti. Di Francesca Tuscano
«Così è difficile rescindere da tutto il corpo le nature dell’animo e dell’anima, senza che tutto si dissolva.
Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall’origine, si producono insieme fornite d’una vita di eguale destino: ed è chiaro che ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra, le facoltà del corpo e dell’anima separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente comuni spira dall’una e dall’altra quel senso acceso in noi attraverso gli organi»1.
Questo passo tratto dal terzo libro del De rerum natura, mi pare particolarmente calzante ad introdurre l’opera di un artista come Franco Nuti, che nella sua produzione condensa in una stretta reciprocità le essenze, e direi anche le urgenze, dell’anima, del corpo e della mente.
Cos’è, in fondo, se non il segno di una sostanziale unità l’oggetto che egli recupera dalla memoria ponendolo quale
perno dell’immagine artistica? Un’unità, anzi, che non si conclude entro i confini del corpo dell’osservatore, che attraverso l’operazione artistica medita sulla realtà, ma che si estende all’osservato, a quel corpo del mondo che è ogni singolo oggetto/motivo che si ponga all’attenzione dei nostri occhi e, con essi, dell’anima.
Difficile non scorgere infatti, sotto le eleganti velature di questo ciclo di dipinti, la volontà di ripercorrere un passaggio, un attraversamento compiuto all’interno di una dimensione “altra”, ma allo stesso tempo condivisa, sentita propria, come se l’affondo dello sguardo bastasse ad immergersi in una alterità che diviene sempre meno estranea.
E anzi, in questo incontro che la memoria suggella, è forse espresso il senso più profondo di quell’umanità, che altro non è se non continuità con l’altro, radice e motore, per Nuti, dell’atto artistico.
Gli oggetti che l’artista ritrae – e che vediamo sommersi, volutamente, da una coltre di gesso e pastelli a olio – sono oggetti che compongono la città, sono un racconto della sua storia odierna, in cui l’oggetto stesso è contemporaneamente elemento evocato ed evocante.
Come un flâneur baudelairiano che attraversa la folla, l’artista attraversa la città come un organismo totalizzante in
cui identificare tracce di un altro passaggio, delle molteplici, diverse presenze che lo compongono e che ne determinano la specificità.
Ogni frammento, ogni dettaglio, siano essi i resti di un cassonetto o la casa costruita d’occasione sul ciglio di una strada, è un sintomo di vita da non dimenticare.
L’idea della serie, che semplicemente associa un numero a ogni pezzo dipinto, nasce nel 2019 e impegna l’artista per oltre quattro anni.
Ogni singola opera è titolata semplicemente “banner”, una definizione ispirata probabilmente dal modo stesso in cui queste opere si presentano, come rotoli da aprire e far scorrere poi sulla parete che li accoglierà.
Tutte numerate, come in un archivio ideale di memorie, ogni opera ricorda un’antica stele, fatta da una devozione anch’essa antica, quella della ricerca dell’altro, dell’umano, anche tra le macerie del moderno.
Alla velina o alla plastica, che avevano contraddistinto sperimentazioni precedenti, qui si sostituisce uno strato di gesso liquido, talvolta sostituito dall’olio a pastello, che mantiene una consistenza materica maggiore, capace di realizzare spessori.
In questa autobiografia al plurale che l’artista costruisce con una serie di sconfinamenti verso la vita di chiunque egli incontri nelle sue peregrinazioni urbane, «la nebbia del tempo», come spiega egli stesso, «è il leitmotiv che trasforma il ricordo in un presente interrogativo», in cui ci si chiede se la nostra possa ancora essere l’era delle utopie.
Nel gruppo di tele composte per questa mostra ritroviamo così tutti i temi della ricerca di Nuti, la memoria, l’attenzione alla natura e con essa all’uomo, la sperimentazione sui materiali e, non in ultimo, il valore intrinsecamente critico attribuito all’operare artistico, che qui si manifesta con la scelta di proporre la lettura dell’opera in una modalità inversa rispetto al consueto (le tele infatti si leggono dal basso verso l’alto e non viceversa).
Ma è anche una rinnovata visione dello spazio che, insieme al tempo, interviene a dare una particolare fisionomia alla poetica dell’artista.
Riprendendo le parole di Foucault, altro autore insieme a Lucrezio particolarmente amato da Nuti, la contemporaneità è l’epoca dello spazio.
«Lo spazio nel quale viviamo, dal quale siamo chiamati fuori da noi stessi, nel quale si svolge completamente l’erosione della nostra vita, del nostro tempo e della nostra storia, questo spazio che ci rode e ci corrode, è anch’esso uno spazio eterogeneo. Detto altrimenti, noi non viviamo all’interno di un vuoto che si colorerebbe di riflessi cangianti, viviamo all’interno di un insieme di relazioni che definiscono delle collocazioni irriducibili le une alle altre e che sono assolutamente sovrapponibili»2.
Questa «sovrapposizione delle esperienze», intuita in una chiave straordinaria dal filosofo francese, da cui scaturisce la possibilità della relazione, è al centro di questo lavoro di Nuti, in cui è l’interazione stessa il movente per la nascita delle composizioni. E il titolo della mostra, recuperando il significato di είϛ (eis, traducibile in un “volgere lo sguardo verso…”), ce lo rivela chiaramente.
La centralità della relazione è qui dichiarata anche da una vera e propria ricostruzione dello spazio, attraverso la collocazione, evidentemente installativa, delle tele e, ancora, nel senso che esse ci trasmettono, con lo slancio verticale, di ascensionalità, di sacralità, rimando quest’ultima al significato della relazione stessa.
Lo spazio, per Nuti, è sempre uno spazio del sacro. Ricordo una sua mostra di una ventina di anni fa, in duale con Eugenio Colombo, di cui lessi il catalogo. Il titolo era Sacrificium, in sè una definizione, quasi, dell’arte contemporanea e della sua paradossale condizione, in bilico tra l’ambivalenza, tra l’estrema diffusione che oggi la caratterizza e lo svilimento dei suoi contenuti, della sua identità, della sua funzione.
A questa evidenza rispondevano gli artisti con un’esposizione in cui Nuti presentava una serie di figure imprigionate nella plastica, in uno spazio che Sandro Cappelletto nel suo testo per l’occasione ebbe a definire uno «spazio gassoso»3 in cui ogni suono è impossibile. Uno spazio che costringe a un silenzio coatto queste esistenze così rappresentate, ma pur sempre uno spazio.
Ma arriviamo a questi ultimi anni, a una ricerca rinnovata ma ancora, come si è detto, in stretta connessione con i temi della memoria e dei luoghi.
È il 2018 Nuti realizza una serie di piccole sculture in argilla cruda che posizionerà all’interno della chiesa di Santa Maria in Grotta, a Sessa Aurunca. Anche qui il titolo, questa volta dell’installazione, è altamente significativo, riprendendo dal latino specula l’idea di un osservatorio di vedetta, quello dell’occhio dell’arte.
Nel suggestivo antro della grotta, in uno spazio più simile all’oscurità che alla penombra, queste sculturine vengono collocate su dei piatti, di dimensioni altrettanto modeste, ma che hanno per Nuti un grande valore
affettivo, perché sono il risultato di uno dei suoi ultimi laboratori tenutosi in uno dei centri di salute mentale di Roma.
Ogni scultura ha in sé una cavità che accoglie una candela, brillando così di luce propria all’interno della perenne notte della grotta. Ogni piccolo pezzo, forgiato in una forma particolare e distintiva dall’artista, è una grande metafora dell’essere umano e il loro creatore, deus ex machina dell’installazione, è anche osservatore che contempla il creato, divenuto ormai altro da sè, dotato da vita autonoma.
La serie di sculture realizzate per questa mostra ha una qualità molto simile a quella del lavoro di Sessa Aurunca. Anch’esse plasmate in argilla, se ne differenziano nella tecnica per l’intervento del colore, che in colature di un bianco opaco ricorda il ceruleo spessore che nelle tele provoca un effetto di offuscamento, simile a quello di una memoria che non vuol riemergere nitidamente.
Sono anch’essi oggetti recuperati dal passato, come ci svela la loro forma a metà o, ancora, l’effetto primordiale che mantengono, rimandando al processo della memoria come a un processo senza tempo, ma dotato di uno spazio e di una fisicità ben precisi.
Come singoli brani poetici, queste sculture aggiungono ancora un contenuto, stavolta drammatico, alla storia dell’uomo, ci avvertono che qualcosa si è rotto, che si è perso il sogno di una società tra pari, in cui il principio di uguaglianza è destinato a svanire come uno scomodo ricordo.
È allora forse qui più che altrove, in questo cercare continuo, inarrendevole, gli ultimi resti di quell’amore per l’altro che ancora può essere il primo avamposto di un’inestinguibile sacralità, che forte si ode la lezione di Foucault, del suo grande pensiero sulla “differenza”, diremmo oggi, su quelle forme della diversità che, mortificate ancora dall’incomprensione, sono in fondo l’espressione più onesta della ragione e della coscienza umane.
1 – Lucrezio, De rerum natura, III, 329-336.
2 – M. Foucault, Spazi altri, I luoghi delle eterotopie, Mimesis Edizioni, Milano, 2011, p. 22.
3 – S. Cappelletto, Suoni per un’esposizione, in M. de Candia (a cura di), Sacrifici. Franco Nuti/Eugenio Colombo, 09/11/98, Associazione culturale Lo studio, Roma, Catalogo della mostra.
Dal catalogo della mostra personale Eis, 2024
Nel silenzio il segno come parola. Di Anna Cochetti
“Voi, mie parole, tradite invano il morso secreto,
il vento che nel cuore soffia.
La più vera ragione è di chi tace.
Il canto che singhiozza è un canto di pace.”
(Eugenio Montale, So l’ora in Ossi di seppia, 1925)
È nel silenzio profondissimo, assoluto e assorto, metafisico, di una chiesa rupestre che si fonda l’incipit de “Il segno come parola” di Franco Nuti, nell’ora in cui una qualche nascosta verità, di quelle che “non vede la gente nell’affollato corso”, è prossima a svelarsi, evocata dal rito di un magicien, in veste di artista, che ha raccolto pietre e oggetti e resti di oggetti, ha impastato terre e acque, ha dato loro forme iconiche, ha tracciato segni e figure simboliche, ha acceso fuochi ad illuminare il buio.
E il cammino iniziatico alla ricerca della “Verità” (2022) ha potuto essere intrapreso.
Stanno qui – sottolineati in ogni loro passaggio in un video – l’incipit concettuale e le scelte linguistico-formali che guidano il visitatore alla fruizione dell’installazione site-specific di Franco Nuti per lo spazio romano di Storie Contemporanee, bianco/vuoto contenitore atto ad evocare, per signa, la sacralità rupestre.
Nella dislocazione tra due spazi e due tempi sono occorsi giorni ed eventi inimmaginabili – quali una pandemia devastante vivi e morti e il sopraffare del sentimento della malattia e della fragile precarietà dell’essere e dell’esistere – che hanno reso ineludibili riflessioni altre, a chi si interrogava, da artista e da intellettuale, sul senso, al tempo stesso direzione e significato, da assegnare alla ricerca della “verità”.
Ritorna dunque Franco Nuti in “Il segno come parola” su alcuni temi nodali della sua ricerca, quali la relazione tra la conoscenza razionale e la conoscenza emotiva nella tensione verso la “verità”, da esercitarsi oggi intorno alla centralità della Natura Naturans e alla funzione che in essa occupa il genere umano, inteso nelle sue di verse accezioni, religiose, filosofiche, politiche, economiche, socio logiche, psichiche.
“Il punto di osservazione da cui soppesiamo un fenomeno determina la dinamica dello stesso”: così l’artista dichiara ad introduzione del suo viaggio di conoscenza sub specie aesthetica, in cui ha scelto di essere accompagnato dalle parole di Epicuro, Lucrezio, Ovidio, ma anche di Marx e Freud.
Laddove le parole sono il segno che costituisce il percorso stesso dell’installazione, costruita come una sorta di spazio sacro – in quanto individuato e definito rispetto al resto, a ciò che è intorno – attraverso l’assemblaggio di disegni, carte veline, terrecotte e oggetti, custoditi ognuno in una sorta di essenziale cella o tabernacolo, in cui è posto in essere il processo di conoscenza razionale/emoziona le cui l’artista invita, nel silenzio, il visitatore.
Dal testo della mostra personale Il segno come parola, 2022
Frammenti di un dialogo. Di Loredana Rea
Lo spazio si definisce lentamente e per saturazione, suggerendo la possibilità di un differente punto di vista sul mondo, capace di infrangere il ritmo incalzante della quotidoanità. Lo sguardo rallenta per andare oltre la percezione di una realtà sospesa nell’eternità del presente, senza memoria del passato e coscienza del futuro, e si lascia condurre dove il rumore si assopisce fino a sparire nella rarefazione del silenzio.
Frammenti enigmatici di un dialogo, che si scompone e ricompone sul filo sottile eppure tenace di intense suggestioni poetiche, codificano l’articolazione di una grammatica dell’esistenza, che nell’arte ha trovato le sue regole morfologiche e sintattiche, per testimoniare il proprio tempo, in una densa stratificazione di segni, immagini e significati.
La scrittura del lavoro costruito a quattro mani da Franco Nuti e Lello Torchia, con la necessaria indipendenza, legata all’attitudine di declinare in direzioni formali diverse la solidità del pensiero, si offre nella complessità di una partitura orchestrata attraverso una sapiente azione di decontestualizzazione e ricodificazione, decostruzione e ridefinizione, in grado di rafforzare il valore dei singoli interventi e tracciare inedite prospettive di interpretazione.
In Nuti la tensione a classificare e ordinare il mondo per comprenderlo, si materializza nella costruzione di un singolare archivio della memoria, in cui il senso delle parole si deposita sulle cose, per liberarle dell’intrinseca ordinarietà. Slabbrando i confini dell’uno e delle altre, innesca una commistione dinamica e fertile, per affermare la necessità di un’interpretazione mutevole, aperta e fluida, capace di slegare il significato dall’immediatezza della presenza e suggerire una dimensione intima in cui fare esperienza della complessità umana.
Torchia invece sposta l’attenzione dal flusso indistinto della quotidianità all’urgenza di preservare la consapevolezza di sé, fagocitata dalla scontata imprevedibilità dei luoghi comuni. Ridisegnando territori, fisici e mentali, in cui intervenire, prova a riattivare una differente coscienza della percezione della realtà, per rintracciare nei simulacri di una condizione umana, che si svela a poco a poco, l’inconciliabile paradosso dell’effimera consistenza dell’esistenza terrena nel trascorrere inesorabile del tempo.
Entrambi si confrontano, senza fornire risposte in qualche maniera scontate e, insinuando con tagliente ironia l’ombra del dubbio, inducono alla riflessione, personale e collettiva. Da una dinamica metafisica, che tutto permea di sé, per rintracciare le ragioni dell’interrotta interrogazione sulla caducità del farsi della vita, sia pure con modalità esplicitamente difformi, introducono all’esplorazione di uno spazio interiore necessariamente esteriorizzato, ipotizzando altre pratiche di abitare il quotidiano in tutta la sua spaesante molteplicità, per dissolvere in una narrazione non lineare le incertezze di vivere un tempo disattento ai bisogni profondi dell’uomo. Gli elementi di un fragile equilibrio, armoniosamente concertato, si squadernano sotto la spinta di forze contrastanti, secondo i principi all’apparenza illogici legati alla situazione storica, in cui tensioni globali e interessi locali delineano il difficile attraversamento di una crisi sistemica, che ha minato i valori fondanti della società contemporanea. Improvvise prendono corpo narrazioni visionarie e graffianti, lievi e fugaci, profonde e spiazzanti, che ognuno ha la possibilità di volgere a sé, seguendo le norme della propria grammatica interiore.
Dalla brochure della mostra personale La grammatica dell’esistenza, 2017
Della natura della cultura. Di Enrica Petrarulo
Il pensiero contemporaneo è attraversato da una dicotomia ancora irrisolta: quella che intercorre tra la nozione di natura e quella di cultura, e quindi tra universalismo e relativismo.
Una sorta di ambiguità lega, comunque, i due termini, non sapendo con esattezza dove si collochino i confini dell’uno e dell’altro.
Dov’è la natura dell’uomo? Per dirsi uomo, l’uomo ha bisogno di un linguaggio, cioè appunto della cultura (R. Barthes).
Non si tratta, allora, di risolvere un’antinomia, bensì di annunciare l’oltre di questa intransitività, sciogliere la sua circolare interdipendenza: ma questo ricercare la natura nella cultura e viceversa, il contingente nel permanente, l’identità nella differenza, è precisamente l’esperienza dell’arte.
Gli artisti invitati a misurarsi su questo tema, devono certo avere colto il paradosso che lega i due termini.
Deve averlo colto Gabriella Di Trani che, attraverso la composizione di più piani di rappresentazioni, costruisce la sua personale gabbia culturale.
Nel suo lavoro non c’è neppure una traccia che possa minimamente riportarci a un residuale stato di natura: qui il contagio è già avvenuto.
Virus, questo il titolo del dittico che costituisce la sua installazione, allude alla condizione ossessiva e coatta di una psicopatologia che tutti ci possiede, e ci inibisce finanche la parola.
L’installazione di Silvana Leonardi, Sipario, sembra, a prima vista, introdurci all’interno della rappresentazione teatrale di una confortevole commedia borghese. Una sedia, autentico ready made, è posta accanto al dipinto di una terrazza che affaccia su uno scorcio di Mediterraneo dei giorni nostri.
Sulla sedia è un libro abbandonato che non ci sarà difficile riconoscere come un’edizione di Al faro di Virgina Wolf.
Su tutto incombe un’assenza, quella di chi abbia abitato la sedia, letto quel libro.
Per quanto diverse siano le configurazioni geografiche, pure siamo tentati da un’ipotesi di similitudine, quasi un’identificazione proiettiva: attraverso lo slittamento dell’unità spazio-temporale tra l’azione che qui si compie e quella della vicenda narrata dalla scrittrice inglese, ci giunge tuttavia la medesima percezione di una natura vista e ri-conosciuta attraverso un filtro letterario, se non mitologico.
L’Africa è la regione mitica, e anche suo luogo di origine, di Rita Mele. Sulla verticalità di una tela che si dispiega ben oltre i confini della parete, l’artista ha rappresentato, come in forza di un pensiero magico, la trasmigrazione della potenza della cultura, e dunque della sua prassi, verso quel paese degradato.
Senza soluzione di continuità, un diapason si fa anello di congiunzione, cinghia di trasmissione, tra un volto appena accennato e la cartografia della regione che, in forma di foglia, invaderà progressivamente l’intero spazio pittorico.
Lo spettro delle riflessioni, al quale il dipinto ci rimanda, può essere qui solo accennato: valga per tutti quello delle differenze culturali sacrificate all’egemonia della cultura dominante.
Franco Nuti si muove su un piano di necessità: quello di chi intende il dovere di custodire, contro la potenza corruttrice e distruttiva del tempo, la memoria di ciò che l’umanità è stata, e dunque della sua storia, individuale e collettiva, radicandola all’humus della terra (da cui umanità).
Le impronte della memoria, questo è il titolo della sua installazione, si compone di 15 metri di tela di juta (sulla quale l’artista ha scritto un suo testo personale e intimo) riavvolti su loro stessi e custoditi in un cilindro di plexiglass che, a sua volta, poggia su un terreno di sabbia; proprio come la metafora sul ricordo di Aristotele: l’impronta senza materia impressa da un sigillo che, su una tavoletta di cera, conserva la sua traccia.
In Perdurare nonostante, di Teresa Pollidori, la contrapposizione natura-cultura si fa più icastica. La foto di un invadente e dominante albero di ulivo, stampata su un telo di plastica, è posta, pur nella sua trasparenza, al di qua dello skyline di un agglomerato urbano costruito attraverso l’assemblaggio di moduli in cartone che adombrano altrettante architetture, quasi a formare, però, un monolite, tale da non consentire neppure un attraversamento.
Qui la natura è rappresentata attraverso la chiarezza e il realismo della fotografia; l’urbanità che, come un sudario la contiene, attraverso l’approssimazione di elementari e interscambiabili geometrie, inadatte a suggerire una qualsivoglia idea di mondo.
Dal catalogo della mostra pubblicato nel 2018
Le orme della memoria. Di Paolo Dalpasso
Presso gli antichi i giovani poeti studiavano i rimari, da dove vengono tramandati i valori, le gesta, l’amore per la patria, la parola musa significa anche memoria: ispiratrice di idee e sentimenti utili agli uomini.
L’opera, una sorta di papiro eretto e costretto da una distesa di sabbia, un mondo ostile dove l’uomo che, anche se, naturalmente è sospinto verso l’altro, annichilito dal mercato del tutto, lascia trasparire poco del proprio vissuto; l’essenzialità del costrutto sembra liquidare il problema della propria memoria come una raffinata tragedia.
Dal catalogo della mostra pubblicato nel 2018
Il colore e il movimento. Di Paolo Dalpasso
Conoscendo Franco Nuti da molti anni, sono sorpreso, quasi incredulo rispetto alla sua freschezza e ingenuità e toccato soprattutto dalla profondità della sua sensibilità. La sua cultura si fonda su letture importanti per la conoscenza dello sviluppo dell’animo umano e delle sue contraddizioni, che ne sono l’elemento costitutivo e dialettico; l’esperienza del laboratorio artistico con disagiati mentali di un Centro di salute mentale, certamente ha contribuito ad affinare, al pittore in questione, un’idea del mondo dove esistono pesi e misure completamente diversi tra chi non ha nulla e chi possiede, non solo ingenti fortune, ma anche l’arroganza di devastare per un proprio tornaconto l’universalità delle cose: il nostro pianeta.
Questi sedici lavori su legno che ho osservato attentamente, si configurano con dimensioni di circa venti per ventisette cm, il colore usato è l’acrilico; il tema di fondo in questo mosaico contiene del capitoli o parti del discorso, che trasfigurano e nel contempo interpretano attraverso l’elaborato pittorico la realtà. I capitoli sono determinati attraverso questi argomenti: Prigione, Il gioco della trottola e l’imprevedibile, La casa e il rapace. Solitudine, Il caos e l’incomprensione, La macchina e le scorie, Scorcio, Vento e fuoco, La speranza irreale, Canicola e morte, Vortice, Movimento e futuro, Caleidoscopio di sguardi, Alt (mondi in collisione), La conchiglia e il deserto; inoltre una composizione, Visione (La città senza speranza).
Nella pittura, nell’arte in genere, il veicolo del costrutto deve essere interpretabile, Nuti un pittore che sa determinare, stante la sua intensa sensibilità, attraverso il colore un linguaggio che non ha il sapore dell’esistenzialismo, né del nichilismo fine a se stesso; la realtà frantumata è rappresentata da un colore, che non è tecnicismo, ma che pur nella sua tenuità sa delineare stridori, dissonanze, di una coscienza compiuta, coeva, pregna di un desiderio di una umanità consapevole della propria condizione.
Il mosaico non è ripetitivo nelle sue tessere; pur parlando di questioni importanti, l’immagine delle stesse è sempre capace di sorprendere, di rimanere delicata e soprattutto di essere portatrice di un travaglio personale che sa cogliere pienamente il segno dei tempi. In tutti i lavori si avverte una religiosità che anela giustizia per una umanità sconfitta.
Dal testo della mostra Il colore e il movimento, 2015
Rimandi. Di Marco Amore
Due parole: forma e colori. Queste le coordinate che servono a monitorare la ricerca di Franco Nuti in campo artistico. Un viaggio attraverso la forma – canonica, ellittica, sferica. Nella pura geometria cartesiana.
Di un otto orizzontale. Di una retta che procede fin dove nessuno sguardo potrà mai raggiungerla.
Su alcune delle varie tracce dell’infinito. E i colori. Rosso, giallo, blu.
Colori primari e loro possibili sfumature. Scarlatto, vermiglio, porpora. Giallo Chartreuse, giallo zafferano, giallo pastello. Finanche composti neutrali come l’arancione. Uno spettro non visibile di colori emotivi.
Il noto blu/tristezza di Chagall, dei bluesman degli anni trenta del secolo scorso.
Quindi il tempo. L’entità non cronologica dell’attimo fuggente, l’asincrona simultaneità delle sue ombre, l’assolutismo nella relatività della propria durata.
È l’indagine che Franco Nuti ha intrapreso attraverso il nucleo di un anamnesi su larga scala dell’io.
Di una memoria non solo individuale, fatta di ricordi frammentari e poliedrici, di schemi di cose assimilate o astratte, ma anche collettiva, dove Nuti si affaccia allo specchio di una più ampia rifrazione sociologica, fino alla psicologia di Freud e Jung, a forme di studio che approfondisce dissezionando gli anni con le proprie istanze intrapsichiche, per arrivare ad una penetrazione scientemente teoretica dell’esistenza.
Prendiamo fifty-five (2009), una serie di disegni a matita realizzati su carta velina – qui fragile superficie del ricordo – che giacciono accartocciati neanche fossero stati gettati via, ma in un enigmatico cilindro di plexiglas e con lo scopo di proteggerli, uno scrigno trasparente che sottrae i disegni al mondo esterno, alla curiosità di un probabile spettatore, a cui appare chiaro che essi esistono, senza che lui o lei possano tuttavia saggiarne il contenuto.
Ciò a mio avviso per preservare – come veri e propri ricordi – i souvenir di un passato mai passato; ma soprattutto, credo, per una certa qual volontà inconscia dell’artista di voler nascondere se stesso in qualcosa di assolutamente limpido, di cristallino – nell’esatta metafora del proprio essere – come la superficie dell’acqua, per dimostrare all’eterno Altro che benché egli possa guardargli dentro, ciò non implica il vederne l’essenza.
O, ancora, Mappe celesti e Maps in progress (2007), dove il colore diviene il segnale da seguire in una simbolica topografia cromatica; la rappresentazione di uno spazio, decisamente non mistico e tuttavia emozionale, in cui ognuno rintraccia la tonalità che più gli si addice.
È chiaro che, per comprendere veramente un artista, non basta ammirarne estasiati alcuni lavori.
Paul Klee scrive: l’arte non riproduce quel che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.
Un po’ come fa il tempo, riportando alla luce quel che ancor prima ha sepolto, così anche l’arte rivela quel che un po’ prima ha occultato, trasformando l’artista in un esperto archeologo pronto a riscoprire il feticcio di un antico idealismo, a effondergli nuovo splendore con l’originalità del suo estro, perché le idee non hanno altra scadenza se non quella umana.
Da un simile parallelo, nonché dai molti rimandi e punti di contatto tra le opere di Nuti e i papiri in genere – basta pensare a La macchina del tempo uno/due o Tascabile n.3 (2002/2007), alla struttura di Pagine (2009) in cui fasce di cotone si uniscono insieme come altrettante strisce di cellulosa – nasce l’ipotesi di un intenso confronto con l’Officina dei Papiri Ercolanesi di Napoli, da cui l’artista ha tratto spunto per un’intima riflessione tonale.
Ma le affinità epidermiche non sono l’unica celebrazione dell’armonia tra opere e spazio. Esiste un connubio che va ben oltre la superficie: laddove i papiri rivelano in parte i passaggi di un testo, accade che le opere trovino in parte la loro eloquenza, creando una specie di unione simbolica di grande spessore.
Testo per la mostra personale Rimandi, 2015
Monumento Italia Unita. Di Barbara Tosi
Monumento Italia Unita è il titolo dell’installazione di Franco Nuti. Composta di materiali diversi ed eterogenei, dal significato simbolico; l’opera si presenta eretta su di un’asta posta al centro di un cerchio di pigmento: terra di Marte, rosso scuro simile a sangue ossidato.
In assoluto contrasto con il titolo, l’opera si presenta come un vero antimonumento.
Alla parola monumento, infatti, si attribuiscono significati di celebrazione, di commemorazione, di memoria.
Il Dizionario Gabrielli sul significato della parola monumento recita così: “Opera di scultura o di architettura posta in luogo pubblico in memoria di una persona o di un avvenimento importante”.
L’aspetto celebrativo, inoltre, prevede la messa in luce dei lati migliori e positivi della persona o dell’evento, ma in ogni caso, la testimonianza, nella sua composizione, contiene documenti e memorie che l’hanno resa tale e soprattutto degna di essere ricordata.
Quel pigmento: rosso di Marte sembra mettere in primo piano le vite costate al raggiungimento di quel la faticosa e guadagnata Unità, sia per il rosso scuro già ricordato, sia per il dio della guerra: Marte.
Al culmine dell’asta è posta una ruota di bicicletta mobile, sovrastata da un cumulo disordinato di sacchi di lino finissimo cuciti e riempiti di rifiuti.
Dai raggi della ruota pendono: un bianco abito femminile estivo insieme a degli zoccoli rossi dal tacco alto, una maglietta maschile a righe, dei sandali maschili estivi ed un paio di occhiali da sole. Questi oggetti, tesi dalla forza di gravità si muovono ad ogni minima oscillazione della ruota.
Una improbabile giostra, che evoca presenze anonime, definite solo nel sesso, oscillano ad ogni spostamento d’aria e dal peso dei rifiuti acquistano stabilità.
Il movimento della ruota, quindi, non conferisce alcuna dinamicità all’insieme, ma solo il moto ripetitivo della giostra. In conclusione, quest’opera appare molto amara laddove da quel rosso di Marte sorge un’asta metallica, non vitale, ma perno di uno scarno carosello.
L’antimonumento è in atto.
Non si celebra nulla, si ricorda, evocandolo, quell’antico sacrificio, che, in nome dell’ideale, ha mietuto vite di ogni età, sesso e ceto.
Quella giostra non ricorda, ma richiama l’unico movimento possibile: il passare del tempo, ineluttabile, impietoso e privo di rispetto per il passato. Qualora il girare della ruota fosse continuo e sempre più veloce i sacchi di lino con il loro ingiudicabile contenuto sarebbero lanciati casualmente nell’aria dalla forza centrifuga e la giostra degli indumenti stordirebbe la vista, mentre il rosso di Marte resterebbe immobile ed invariato.
L’antimonumento è compiuto.
Dalla brochure della mostra collettiva 1861-2011 Progetto Italia, 2011
La giostra della vita. Di Paolo Dalpasso
Nell’indeterminatezza del tutto, ci riappare la speranza di pensare, impercettibili come siamo abbiamo possibilità se riportiamo lo sguardo del pensiero alle questioni semantiche; non intendo muovere in questa riflessione l’equivoco del mito del buon selvaggio, mi perito di ancorare qualche parola a quelle società che Leopardi chiamava “larghe”.
Il lavoro in questione ribalta l’idea del pensiero classico e cioè le determinazioni sono il motore che sospinge verso l’alto, e che tenta e lambisce il pensiero compiuto.
Dalla brochure della mostra collettiva 1861-2011 Progetto Italia, 2011
Passaggio a Sud Ovest. Di Barbara Tosi
Passaggio a Sud Ovest nasce da un’esperienza, da un viaggio, che ha determinato una suggestione, ha suscitato un ricordo, si è installata nella memoria di Franco Nuti, investendo tutti i sensi: dalla vista al tatto, dall’olfatto all’udito fino al gusto.
Ultimo, ma non per questo meno rilevante si rivela il senso dell’appartenenza e del possesso di un luogo, carico di tutti quei sensi sollecitati e ricordati.
Gli artisti, rispetto a tutti coloro, che possono avere ottenuto analoghe risposte alle esperienze avute, possiedono il privilegio di poter comunicare agli altri il distillato di tutto questo processo attraverso le loro opere.
A volte, non è necessario raccontarle, in una cronaca da diario, che non avrebbe la stessa efficacia, ma piuttosto il solo creare un’istallazione, senza tempo e luogo o riferimenti esatti, è sufficiente per restituire di quell’esperienza il fascino del ricordo.
Su di un orizzonte ampio ed esteso appaiono tracce sensibili di un paesaggio, nel quale mare, sabbia, roccia, cielo, sono gli elementi, ma anche i protagonisti, dei quali, ognuno riveste un ruolo di uguale importanza e peso, come se quel posto fosse il primo luogo apparso al primo uomo del mondo.
L’installazione si pone come una rivelazione, una scoperta, carica di tutta la forza dirompente di uno scenario naturale che obbliga lo sguardo alla rotazione di 360°.
Il rappresentare tutto questo non può avvenire attraverso una scala di riproduzione, in quanto sarebbe riduttivo.
Si può realizzare il modellino di qualcosa di concreto: un edificio, una montagna etc… ma come miniaturizzare un sentimento, una sensazione?
Il meccanismo, o meglio la magia di un opera risiede proprio in questa prodigiosa alchimia, che consiste nella consegna delle emozioni di un singolo individuo, con tutte le sue prerogative personali, circoscritte ed uniche, ad in pubblico di innumerevoli singoli individui, che leggono in quell’opera il proprio sentire e si riconoscono nell’emozione, che non è più di un singolo individuo, ma di tutti coloro che vi si riconoscono nei loro modi personali e circoscritti.
Al contrario di ogni possibile miniaturizzazione, il processo è diametralmente opposto, quello scenario è divenuto immenso, non più misurabile, ma ognuno che lo vedrà ne darà misura in una somma, in un accumulo che avrà fine solo con la fine dell’opera, nel momento in cui sparirà anche la sua stessa memoria.
Passaggio a Sud Ovest è un titolo, un’istallazione, ma anche un avvenimento, che non si sa più dove e quando collocare, poiché il farlo non ricopre importanza, se non per una cronaca, della quale chi vi accede non ne vuole sapere per non perdere quella concentrazione di sensi, una volta divenuti personali e privati.
L’arte occidentale è caratterizzata dal rapporto di mimesi, che intercorre tra arte-natura e tutta la storiografia inerente ai miti dell’origine e nascita dell’arte stessa sono costellati di fascinosi aneddoti che dalla Grecia antica fino a
Roma narrano storie esemplari.
“Siamo dunque nello studio di Zeusi: il pittore sta mostrando a Parrasio un quadro appena terminato che ha per soggetto un grappolo d’uva, ed ecco che subito alcuni passeri volano intorno alla tela e, tratti in inganno, dalla
perfetta rassomiglianza della riproduzione, cercano di beccare gli acini.
A questo punto, Parrasio invita Zeusi ad accompagnarlo nella propria bottega, per mostrargli i prodigi della propria arte. I due giungono alla bottega e qui Zeusi prega il collega di scostare la tenda che copre il quadro.
Ma naturalmente la tenda è soltanto dipinta, e Zeusi non può che riconoscere la superiorità di Parrasio: “Io ho ingannato dei passeri, ma tu hai ingannato me”1.
L’arte è un inganno, quindi, ma che non riveste un indole malvagia; è l’inganno del reale, che aiuta a meglio comprendere la realtà; che conduce all’essenza delle cose, spogliandole di ogni distrazione; l’arte è un esigenza
dell’uomo, un urgenza nel cuore di chi la fa; una necessità nel cuore di chi la guarda, per alimentare il proprio spirito.
Il ciclo di opere esposte comprende un nutrito numero di disegni di animali, una sorta di bestiario, che si contraddistingue per la condizione di ciascuno di essi, colto in azioni o situazioni.
Questi singoli disegni colorati sono caratterizzati da due componenti fondamentali: lo spazio ed il simbolo.
Lo spazio all’interno del quale sono collocati è il foglio bianco su cui sono nate, il plexiglas di protezione con le sbarre dipinte colloca e definisce meglio le figure, fortemente pittoriche e colorate, come nel caso del puma, protetto, o forse è che noi siamo protetti dal suo balzo?
L’otaria si inerpica, in modo improbabile, su una duna di sabbia dipinta sul supporto di plexiglas . Il gallo cedrone svolazza su di un letto di vera paglia.
L’aspirazione del cormorano è un’ascesa tra cirro e nembo, si protende e va su, verso il cielo più alto.
Il pirana tenta di uscire dal foglio.
Un passerotto ha conquistato con il becco un vero pennello da pittore, quasi fosse a conoscenza della leggenda di Zeusi e Parrasio.
Un gatto, una lucertola, un pesce, un cane etc… tutti sono definiti nello spazio da elementi estranei al disegno sullo stesso supporto che li protegge.
I disegni sono spesso ironici, giocosi, rappresentano sempre qualcosa di diverso da ciò che mostrano, una sorta di rappresentazione simbolica costruita per riferirsi ad altro.
Più che mimare la realtà o raffigurarla, sembrano alludere a situazioni esistenziali. In quelle stesse, nelle quali accade di precipitare, senza una vera consapevolezza, quasi come se fosse un accidente, ma dalle quali basta poco per tirarsi fuori, lo stesso accidente spazio-temporale offre una soluzione.
Questa non appare sul supporto, che accoglie il disegno, ma poco distante, nella definizione di uno spazio, che allarga fisicamente l’orizzonte e, di conseguenza, lo sguardo ma anche lo spazio e la fusione dello stesso supporto.
Spazio e simbolo si alternano e si intrecciano per caricarsi di sensi e significati in disegni che appaiono più semplici di ciò che contengono.
I contenuti e le forme si distendono dentro le linee per espandersi sulle superfici.
I significati ed i simboli offrono differenti aspetti, che danno adito a diverse interpretazioni, a letture molteplici, almeno tante quanti sono gli sguardi che vi posano.
Un caleidoscopio di immagini si manifesta ad ogni giro del cilindro, i risultati si moltiplicano numerosi e danno vita ad uno sfavillio di colori.
Le immagini si accavallano, in parte si coprono ed in parte si svelano mentre si frammentano ed, in questo modo, realizzano un’unica immagine, come un grande arazzo, che diviene il contenitore di tutte le forme.
1 – E. Kris, O. Kurz, “La leggenda dell’artista”, Torino, Boringhieri, 1981, p.61.
Dal catalogo della mostra Passaggio a Sud Ovest, 2010
Frammenti di viaggi ed emozioni. Di Loredana Rea
Il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma.
Bruce Chatwin
Il percorso di ricerca che Franco Nuti ha sviluppato in questi ultimi anni sembra oscillare tra due poli opposti eppure complementari: il desiderio di indagare con gli strumenti offerti dall’arte la natura degli accadimenti quotidiani e la necessità di mostrarla, sia pure con la tenace pudicizia di chi sa che potrebbe violare un segreto.
Muovendosi con estremo rigore nell’ampio spazio tracciato dalle due differenti proposizioni l’artista romano ha costruito un linguaggio che partendo dalla pittura è approdato con sorprendente spontaneità all’installazione. Dando corpo al bisogno di un naturale sconfinamento, di una ricercata contaminazione, nati non solo dalla volontà di usci re da canoni espressivi e tecnici tradizionali per raggiungere una maggiore libertà di azione, ma anche dall’intenzione di sperimentare materiali differenti per focalizzare l’attenzione su dettagli che altrimenti sfuggirebbero, ha delineando i confini di un territorio ampio in cui l’originario interesse per la pittura ha trovato nuove declinazioni.
A poco a poco, infatti, un’inaspettata grazia cromatica ha alleggerito il corpo stesso della pittura, spingendola inevitabilmente verso altre strade, in cui centrale è il rapporto mai conflittuale con linguaggi dissimili, per costruire un racconto organico, sia pure per frammenti, in cui emergono con forza i ricordi degli odori, dei rumori, delle luci e delle ombre, di tutto quanto costituisce la struttura portante del quotidiano farsi delle cose.
Dal dialettico e costruttivo confronto tra pittura e materiali eterogenei, sebbene sempre trasparenti (plexiglas, plastica, camere d’aria, tubi di gomma), nascono le opere recenti a dare vita ad un’atmosfera sospesa, in cui quotidianità, memoria, poesia e ironia si incontrano per innescare un inaspettato dialogo tra presenze e assenze, tra attese e partenze, tra persistenze e fugacità, esplorare i limiti, le zone marginali e leggervi le tracce di un’umanità che si rivela a poco a poco, in uno spazio e in un tempo indefiniti.
Passaggio a sud ovest, il titolo scelto per questa esposi zione, partendo dalla complessa installazione omonima, materializza un percorso articolato intorno a diversi nuclei propulsivi, tra loro strettamente connessi, che l’artista ha progettato e poi allestito con la raffinata accuratezza che da sempre lo contraddistingue, fondendo con una levità che sorprende spunti difformi, a suggerire non solo il flusso ininterrotto delle emozioni che sostanzino la quotidianità, quanto piuttosto la necessità di attraversarle, immergendosi in esse, per poi custodirne inalterata la fragranza.
Quello proposto da Nuti è un viaggio, che – parafrasando Proust – “non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi“.
Infatti, il girovagare tra due regioni tanto diverse per morfologia, tradizioni e culture quali la Calabria e la Sicilia è diventato il motivo conduttore che ha permesso l’esemplare traduzione compositiva di un’esperienza geografica e allo stesso tempo interiore, in cui visione ed emozione si ritrovano l’una nell’altra per dare forma alla realtà.
L’allestimento svolge un ruolo importante, tanto che l’intero spazio espositivo, anche quello vuoto, è parte integrante delle opere, siano esse i fogli dipinti, le sculture o, infine, le due grandi installazioni, impaginate tutte con l’obiettivo di creare un percorso espositivo, in cui i continui rimandi tra le une e le altre possano creare metaforici rispecchiamenti e studiati slittamenti di senso, sottolineando con sottile ironia e una punta di malcelata amarezza l’inquietudine di questo nostro tempo.
I singoli lavori – effigi di un personale bestiario che occhieggiano dalle scatole di plexiglas, ampie porzioni di paesaggi sublimati nella liquidità del colore che si srotolano lentamente sotto i nostri occhi, materializzazioni di emozioni vissute e messe in scena con una raffinatezza che tradisce la solidità della progettazione – debbono, quindi, essere intesi come emblematici segni di una composizione più ampia, per trasmettere uno stato di toccante temporaneità e restituirci la flagranza di una memoria che va conservata e contemporaneamente esposta.
Dal catalogo della mostra Passaggio a Sud Ovest, 2010
Una barca carica di…. Di Barbara Tosi
Ancora una volta il lavoro di Franco Nuti viene “esposto” al pubblico nella maniera schiva ed interdetta, che è propria alla poetica dell’artista.
Dalla brochure della mostra personale Una barca carica di…, 2008
Sentinelle. Di Barbara Tosi
Danilo Bucchi, pur essendo un’artista di giovane generazione, è già notevolmente affermato e la sua opera “Riflessione sulla legalità” si presenta come uno studio, quindi suscettibile di cambiamento, e di conseguenza smorza l’amarezza di una bilancia sulla quale due euro pesano più di un piccolo uomo sull’altro piatto. La sua riflessione implica uno sguardo più ampio, esteso su tutta una società che ha fatto del denaro un valore, uno scopo, una misura sino a ridurre l’essere umano ad una figurina, un pupazzetto dal peso irrisorio, meno di due euro !!
Le opere di Bruno Ceccobelli, nella sua intensa carriera sono sempre state caratterizzate da una forte valenza simbolica e dal carattere di icone. La sua “sentinella” dal titolo “Incrocio benefico” rimanda ad un mondo nel quale i simboli sono chiari come parole ed imperiosi come comandi. I piedi e le mani sono dinamici ed in movimento per l’effetto delle diagonali, incrociate come spade, nel segno della forza e dell’autorevolezza.
Per Filippo di Sambuy l’araldica, i vessilli, e tutto ciò che comporta quel linguaggio diffusamente perduto e ormai conosciuto da pochi studiosi è più di un tema; è il soggetto principale delle sue opere e questa “Bandiera”, severa, diviene simbolo di lotte e battaglie ancora da combattere.
La “sentinella” di Luca Guatelli è un grande pupazzo di stoffa, dal volto asimmetrico e fisso, che sul suo corpo liscio, ma trafitto in maniera apparentemente innocente da mucchietti di spilli dalla capocchia gialla come mazzolini di fiori, porta scritto un invito “Ascoltami” “Ascoltatemi”.
È certamente più di un invito è un’esortazione al dialogo, alla capacità, ultima, prima della guerra, di riuscire a parlare, a risolvere.
Gino Guida arma una vera sentinella provvista di spada ed elmetto, ma al posto del cuore, o meglio nell’area che ad esso compete, pone i simboli delle religioni del mondo più diffuse, dal cattolicesimo, all’ebraismo, a quella islamica, invitando al rispetto ed alla tolleranza nella libertà di ciascuno. È un’interpretazione della Legalità, in questo caso legata alle Leggi ed alla ottemperanza ad esse.
Ho già scritto altrove del mondo interiore di Frédéric Guérin: che si manifesta nelle opere dell’autore come un’apparizione venuta da lontano. Nei “Pescatori di lune” i pescatori, intenti al loro lavoro, non tengono conto dei pesci enormi e minacciosi come gli squali, restando occupati, quasi a significare l’importanza del restare saldi e perseveranti mentre nel cielo guizzano quelle rovinose creature.
Emilio Leofreddi con il “Tango”, dissacratore e trasgressivo, evoca i drammatici “Cento passi” del coraggioso giornalista radiofonico Impastato, ucciso dalla mafia. Tra tutti i balli il tango è quello che più di tutti disobbedisce, infrange, contravviene, viola e infine oltrepassa ogni regola. Quelle inique e feroci della mafia sono da infrangere, spezzare ridurre a zero e solo allora quei fatidici cento passi potranno diventare un tango che si fa beffe di quelle regole.
Da quando ha inizio il lavoro di Felice Levini possiede il raro dono della leggerezza, nel senso e nella qualità, che intendeva Italo Calvino. Le opere dell’artista sono sempre pervase da una ironia, che porgendosi con garbo, non rinuncia, anzi rafforza i contenuti di quello che comunica. Nell’opera “Autoritratto con bolle” le parole, che si leggono sopra l’immagine della performance dell’artista, sono contro le parole stesse, anche quelle che lui stesso dice.
Le parole mentono, i fatti contano, ma soprattutto restano.
La tela di Alfonso Mangone appartiene ad una serie o meglio “famiglia” di opere, che vanno tutte sotto il nome di “Città percorso” come una sorta di viaggio ininterrotto attraverso Gli occhi ed il pennello dell’artista. Il Foro romano, nella rovina del tempo, contrasta per maestosità con il rottame di bicicletta rubata. È un’immagine allegorica della Legalità, dei principi etici, antichi come il mondo e la grande storia del passato.
Gonçalo Mabunda è un artista del Mozambico, che, dalla guerra civile del suo paese, da quelle esperienze atroci, ha elaborato una poetica della memoria. Una memoria terribile, che sarebbe preferibile non avere. Sappiamo tutti che è impossibile eludere la memoria, ma che, invece è salutare affrontarla e cercare di lavorare su di essa, affinché diventi inerme, anche se non sarà mai innocente, affinché diventi inoffensiva, anche se mai potrà restituire ciò che ha preso, ma almeno fare in modo che non prenda più e che restituisca quello che solo può, ovvero non dimenticare, nel sopore assoluto dell’odio, per poter prendere l’unica via verso il futuro. L’opera “Madre d’Africa” possiede, come tutte le altre la doppia qualità degli ossimori, ovvero ciascuna di esse appare in aperto contrasto con sé stessa: da una parte sono comiche ed allegre, dall’altra tristissime e feroci. I pezzi, ormai inutilizzabili di armi, granate e strumenti di morte, sono diventate opere, altro da loro stesse, inoffensive e portatrici di pace.
Elisa Montessori ha al suo attivo un lungo e prestigioso curriculum di opere e mostre. Il suo segno, inimitabile ed inconfondibile percorre molte pareti. “Arma d’oro” è un’allegoria di come nei vortici e nei mulinelli della vita, tra palmizi ed orizzonti, quell’asta d’oro ed i suoi richiami sparsi in forma di tondi pieni sono il segno di una forza incorruttibile come l’oro, che riuscirà a cambiare, a far si che tutto cambi.
Da molti anni Piero Mottola lavora sulla percezione, sui colori, sui suoni e su quello, che emotivamente quelle viste e quegli ascolti provocano nel pubblico. “Sequenza cromatica E 22” è l’opera scelta per dedicarla al tema in oggetto. Nel suo insieme la sequenza cromatica produce un effetto di grande energia, di forza vitale rischiarata dalle varie intensità di giallo e nel felice contrasto con i blu. L’energia (giallo), unita alla ragione (blu) è quello che serve per resistere alla mafia, combattendola.
Per Franco Nuti la tela si complica arricchendosi di numerose strisce di tela dipinte avvicinate l’una all’altra, percorsi da una grafia pittorica, in un continuum che sembra non avere fine. Alcune di queste strisce sono di carta, scontrini fiscali macchiati di rosso, un’allusione al sangue versato(?) dei tanti pizzi non pagati. A sorreggere tutto questo una sola parola: Giustizia.
Anche Gisella Pietrosanti: usa l’allegoria per affrontare il tema. “La Punitrice” è una figura femminile che si impone al centro dell’opera e con un gesto imperioso di fiamma alza il sinistro per difendere l’urna sulla quale si poggia. La croce sull’urna ne definisce il contenuto.
La difesa di vittime si erge nel braccio infuocato che campeggia nel cielo nero di mondi piccoli e grandi come visti al microscopio.
Ugualmente allegorico si presenta “Sentinelle” con il volo di uccelli bianchi su armi finalmente deposte, dipinto da Gianfranco Schiona. Il bianco degli uccelli, vita e purezza, il loro sbattere d’ali che crea un movimento, contrasta fortemente con il nero fermo ed inerte, come la morte, di quelle armi, che giacciono sulla cronaca dei giornali e che si spera non debbano più muoversi.
Alla fine di questa carrellata e della visione della mostra appare chiaro quanto il tema sia stato stimolante per tutti e quanto le risposte siano diverse, ricche di spunti per ulteriori flessioni. Ancora una volta l’arte è un meccanismo del pensiero, pensa ma soprattutto fa pensare.
Poliedrico. Di Marina Onesti
Il linguaggio di Franco Nuti spazia nell’ambito delle avanguardie orientandosi verso il genere degli assemblaggi polimaterici d’ascendenza cubista, futurista e dadaista, quando si assiste, con quei movimenti, al progressivo superamento del tradizionale olio su tela.
Materiali di varia natura: carta, legno, corda, stoffa, vetro, sughero ecc. affollano il supporto bidimensionale come reperti, pezzi, scorie d’umana esistenza. La realtà irrompe caoticamente sulla tela senza mediazioni.
Le composizioni polimateriche, arricchite nel tempo dall’impiego di materiali sintetici, esprimono la volontà di superare i limiti creativi delle tecniche tradizionali.
Questa, in sintesi, l’origine linguistica della poetica di Nuti, come denunciano le composizioni plastico-materiche disposte sul piano bidimensionale e le tele-pannello, colorate e polimateriche, che investono e abitano pienamente lo spazio.
Franco Nuti compone e incolla sopra tele bianche o dipinte materiali di varia natura: carta, cartone, frammenti lignei e bende, impiegate presumibilmente per unire, trattenere e infine sanare il caos materico. Lo sperimentalismo tecnico di Nuti ha trovato attuazione anche nelle recenti “sculture gonfiabili”, cilindri in materiale plastico – PVC – contenenti pitture su carta dipinte ad acquerello.
Dalla catalogo della mostra Poliedrico, 2008
Sacrifici. Di Mario de Candia
Martyrio.
Una logica sottile, ma ferrea e lineare, unisce biunivocamente – e non solo secondo le regole ben favorevoli della metafora e dell’allegoria – l’esemplarità del sacrificio a quella dell’arte.
Martirio e Arte.
In entrambi i casi si tratta di atti generati, governati e, meglio ancora e più precisamente, disciplinati da solidissime certezze…che sia l’estremo sacrificio di sé ai propri ideali, alla propria fede e credenze profonde o che si tratti di un’immagine prodotta, creata e sorta dalle proprie convinzioni – che di certo meno forti e radicate non sono di quelle della fede – In entrambi i casi, si diceva, si tratta di un atto assertivo che, nella sua sostanzialità scaturisce da “cause” d’esigenza consimili, se non addirittura coincidenti.
La similitudine fra Martirio e Arte, ciò che assimila Martire ad Artista, sta nella convinzione ad entrambi comune che il significato dei loro atti consiste nel rendere utile la sofferenza, la fatica estrema del conseguimento, altrettanto estremo, di una consapevolezza e coscienza di sé, della acquisizione di una certezza di identità all’interno di un sistema di riconoscimento, e la conseguente fermezza a starvici dentro, fino alla più estrema delle conseguenze.
Tale sistema, come ogni sistema di comunicazione, consente, conosciute le sue regole “linguistiche”, di far coincidere l’immagine che si ha di se stessi con l’immagine che di se stessi si vuole offrire e si offre agli altri.
La serenità, così come la santità e la buona comunicazione, transitano attraverso la sofferenza ed il sacrificio.
L’uomo in generale, e più particolarmente ancora Martire e Artista, sono fatti dai loro comportamenti, non dalle parole.
Martire e Artista.
La posta in gioco in entrambi i casi è costituita dal Corpo, come materiale comunicativo per eccellenza.
La disciplina che governa le scelte dell’uno è da considerarsi nell’atto simmetricamente speculare a quella
dell’altro: le rispettive esperienze, visivamente accostate, mostrano come ribaltati, come rovesciati i rispettivi
percorsi e gli aspetti peculiari che li contraddistinguono – la destra dell’uno, per semplificare, corrisponde alla
sinistra dell’altro, l’alto al basso – fino a far considerare le due esperienze distanti e non confrontabili e come
tali sostanzialmente antitetiche.
Così ciò che viene negato dall’uno risulta, nell’atto, affermato dall’altro, ma solo nell’apparenza.
Se per l’arte e l’artista il Corpo è la qualità per eccellenza, la matrice nobile di tutte le rappresentazioni possibili, per il martire lo stesso Corpo non è altro che una quantità, sempre eccellente, ma, pur tuttavia e sempre, nient’altro che materia di scambio sacrificabile sull’altare delle proprie convinzioni. Così sembrerebbe, in questo secondo caso. Ma nella effettività – ancora una consimilitudine con i linguaggi dell’arte che nascondono svelando e svelano nascondendo – la immolazione del Corpo nell’atto dell’estremo, cruento sacrificio di sé, che fa il martire tale, non è altro che la risposta affermativa, affatto sostanziale, della irrinunciabilità alla propria identità, fatta di Corpo e Anima.
Di fronte alle avversità che vogliono prevaricare la sua “anima” piegando il suo “corpo”, il Martire nega il suo Corpo al violento dialogo cui è sottoposto, interrompe i termini di questa “comunicazione” e accelera la fine della “qualità a termine” del suo Corpo.
Proponendola come trascurabile e da lui trascurata, superflua “quantità a termine”, nasconde al carnefice la vera natura della sua complessa identità, indirizzando l’esempio del suo comportamento verso un sistema comunicativo e linguistico assoluto, integrale e comprensibile solo dal suo stesso interno.
Anche nell’Arte, e come fa l’Artista, la questione si pone sempre in termini non di contrapposizione, ma di coabitazione. Coesistenza, è proprio il caso di dire, fra contenente e contenuto, fra la “materia”, quale elemento primo di costituzione e costruzione sensibile delle strutture del linguaggio e del comunicare e lo “spirito” quale comunicazione, fra “finito” e “fine”, fra, per l’appunto, Corpo e Anima.
Se è vero che i comportamenti sono frutto delle intenzioni e che le intenzioni si misurano e giudicano non a partire dai mezzi dispiegati, ma dalle finalità che si prefiggono e dalle mete raggiunte, quelli dell’Artista e del Martire coincidono perfettamente, non solo perché l’Arte, è vocazione anch’essa o perché l’opera d’arte è risultato e frutto di un “fare sacro”, di un mirare a idealità moralmente elevate, ma anche e soprattutto poiché, sostanzialmente, non è altro che l’immagine di una offerta di sé operata dal suo artefice all’interno dell’opera e attraverso il Corpo.
Dal catalogo della mostra personale Sacrifici, 1998
Sacrifici. Di Sandro Cappelletto
Troppi di sacrifici ne ha subiti, ne subisce la musica per sopportarne di ulteriori.
Sacrificio come uso improprio, non rituale, di un orizzonte creativo. Sacrificio che calpesta la musica riducendola a ‘tappeto sonoro’. Consiste qui la violenza disturbante del contemporaneo rapporto con il consumo musicale: l’epoca acusticamente più satura di suoni nella storia dell’uomo, è quella che meno ne rispetta l’identità, la funzione, una consapevole fruizione.
Quando Anna Maria Morbiducci propone degli “accostamenti” tra sguardo e ascolto, tra due diversi procedimenti compositivi, la prima reazione è prudente. Quale forma di scrittura e di segno avrà la priorità, come riusciranno a compenetrarsi i due linguaggi, quale sarà sacrificato all’altro, chi si farà servo di chi?
Il rischio di un accostamento non rituale, non utilmente sacrificale, è forte; la possibilità che la musica si scopra soltanto come arredo sonoro è da evitare come sterile e offensiva verso la stessa autonomia delle creazioni di Monachesi, Nuti e Pieroni.
Ma, a guardar meglio, l’invito si rivela come possibilità di partecipare ad un banchetto di comuni creazioni; quali altri significati il linguaggio della musica saprà donare alle opere già create, e queste come saranno ascoltate dalla fantasia dei musicisti, che scriveranno conoscendole e conoscendo lo spazio e l’occasione della nostra comune fruizione?
Lo stimolo, allora, è diventato cercare intelligenze musicali capaci-disponibili ad essere sedotte dai segni visivi che scandiscono il progetto Sacrifici. Totale è stata, nelle intenzioni, la libertà di scelta all’interno dei diversi linguaggi musicali dell’oggi, nel rigore della qualità.
Diventava possibile tentare tre momenti di metateatro, di incontro non didascalico, ma dialettico di diversi sistemi di segni. La musica non doveva tradurre l’immagine in suono, lo sguardo in ascolto, ma creare altri nessi, sovrapporsi e compenetrarsi, mostrarsi anch’essa. Come avrebbe potuto suonare, queste sculture e la loro diversa fisicità, nella testa e nel cuore dei musicisti, cui sono state richieste opere nuove?
Quali strumenti avrebbero scelto, quali sacrificato?
Il banchetto appariva goloso.
I corpi imprigionati nell’aria di Franco Nuti come una galleria del vento che attende di deflagrare. Lo strumento a fiato, l’aria che diventa materia sonora, pretenderà di donare altra, diversa esistenza a quell’ossigeno rappreso. Senza aria non esiste musica: l’esperienza acustica si diffonde in uno spazio gassoso; se ne venisse privato, anche il suono più potente resterebbe muto.
L’idea visiva della verticalità trova nella concezione stessa della macchina sassofono e nella sua caratteristica impennata timbrica un’associazione architettonica, gestuale.
La disposizione nell’ambiente di questi corpi gelati nell’aria viene reinventata dal gusto teatrale di Eugenio Colombo come stimolo per una performance itinerante, labirinto di suoni e percorsi. Recente, tutta di ambito colto e certamente non definitiva, è la consuetudine della ricezione della musica da parte di una platea seduta e immobile. Il suono si muove, e l’interprete rituale, sacrificale lo ha sempre saputo (intonasse peana o epitalami, ditirambi oppure lamentationes). In piedi, verticale, sta qui anche il pubblico, partecipe non statico di una complessiva – acustica, visiva e spaziale – geometria dello spettacolo.
Dal catalogo della mostra personale Sacrifici, 1998
Franco Nuti. Di Enrico Anselmi
La superficie materializzata in segmentate increspature indaga sulla sensorialità della tridimensione nel tentativo di individuarne i momenti cruciali del distacco dal piano, della travalicazione.
Franco Nuti individua con estrema sensibilità il discrimine, la transizione riconducendoli ad una fase di assoluta compenetrazione, di adeguata uniformità a teoremi spaziali che da tecniche non più esclusivamente pittoriche, sfociano in tensioni e dinamicità scultoree. Dalla tela la forma si rigonfia e si dipana, congiunzione e legamento, scansione di tempi e spazi, di pause e accelerati percorsi, con il nitore e la consequenzialità che rendono le opere di Nuti passaggi intermedi di un cammino omogeneo in ognuno dei suoi momenti.
Materiali come la carta e la stoffa si uniformano negli assemblaggi alla plasticità dell’opera tridimensionale, sono memoria e testimonianza, documenti di un processo inoltrato nel tempo, che della stessa dimensione temporale è misura. Trasudano dalle pieghe ravvolte un dinamismo ancora imbrigliato, un’irruenza che non trova pieno sfogo e pare dover ancora rivaleggiare con le oggettive limitazioni imprescindibili per la stessa fisicità.
Involucri, membrane sembrano essere, che si deformano e si comprimono; frammenti della lacerazione, sottendono richiami, tracce pittoriche e grafiche persistenti come antefatto, come origine non rinnegata, tuttora essenziale contenuto che, da testimonianza di atmosfere, di luoghi fisici e mentali, si affranca per allargarsi a visione estesa e prolungata, comprensiva di realtà inespresse in quanto tali ma rivissute in dimensioni astrattive più globali, tuttavia in un progressivo estenuarsi, in un rarefatto estinguersi.
Impone dunque una “cooperazione sensoriale” questa ricerca su volumi che rompono la bidimensione, un coinvolgimento totalizzato nell’intima relazione tra visivo e tattile, richiamando in tal senso ascendenze d’avanguardia filtrate tuttavia da autonome formulazioni, da personali accostamenti e metodologie, che ne ravvisano l’intento, per altro rispettato, di mantenere la propria autonomia.
Dal catalogo della mostra collettiva Tetrákordon, 1992
Dissimmetrica, spunti per una nuova geometria dell'arte. Di Alessandro Masi
Cadute le ultime barriere ideologiche, crollati i muri della discordia, distrutti i miti e i dogmi, questo ultimo scorcio di secolo termina con un bilancio imprevisto. L’arte, la cultura, l’universo creativo in genere si disgiungono dalla compatta uniformità dell’ideologia per riallacciarsi alla pratica difformità individuale, all’elaborato critico solitario, all’idea originaria di una condizione primigenia del fare artistico.
Non esistono più schieramenti dietro cui nascondersi, né sigle, né macchinose teorie rigide e monolitiche. Tutto si sfilaccia e si frammenta come un mosaico, si polverizza e si decompone sotto la sferza di una inarrestabile volontà di ricerca personale che non è paragonabile a nessun altro tempo della storia.
Il gruppo di artisti che si è voluto presentare per questa occasione non sono altro che una metafora di questa condizione. I loro lavori sono testimonianze di cammini diversi eppure stranamente eguali. Sono schegge e traiettorie di percorsi dissimili, ma vissuti nell’intensità del presente. Sono teoremi e non teorie.
Nelle loro opere non si riuscirà a distinguere uno stile, una scuola, una tendenza che non sia frutto, per ognuno, di una esperienza vissuta nella coscienza di tale condizione, nella speranza della salvezza. Salvezza e speranza non del progetto, ma di un qualcosa che vive e pulsa interiormente, che è sigla e sigillo dell’indissolubile presenza solitaria nel proprio tempo.
Con loro si esce e per sempre da una grafia degli “‘ismi”, dei condizionamenti di un giudizio critico molto spesso prevaricante ed arrogante, dalle traiettorie di una schematicità rivestita di ragioni della Ragione.
In altre parole, essi non fanno tendenza, non creano gruppo, non vogliono e non sentono polarizzazioni dialettiche strette intorno al loro lavoro. Al contrario, essi vivono e sentono il proprio tempo con esatta misura dei propri limiti, delle proprie aspirazioni, con il battito e la pulsione del proprio corpo, delle proprie mani.
Eugenio Chiesa, dopo anni di ricerche, è giunto a contrapporre ad una metafisica del colore una sorta di azzeramento dello spazio. I suoi campi grigi, appena rivestiti di simboli luminosi di piccoli squarci di luce, sono metafore del silenzio. Sono territori dell’umano disumanizzato, rimpicciolito, decentrato. L’uomo non è che il centro di tanti altri impercettibili centri e la sua apparizione è velata da anticipazioni misteriose e sfuggenti.
Elisabetta Di Pisa rincorre la luce attraverso il colore. Un colore che non è mai compiacenza, pura osservanza delle leggi e di una scienza del vedere, ma piuttosto di un sentimento d’osservazione che si assottiglia là dove maggiore appare la difficoltà del guardare. Le sue Venezie sono fantasmi ossessivi, presenze inquietanti che si riavvolgono di luce soltanto dopo essersi ricomposte nella mente che le ha vissute ed immaginate.
Ines Fontenla traccia segni di una scrittura lontana, indecifrabile, remota. I suoi ritmi si caricano di energie trattenute entro uno spessore che è simbolo e traccia di memorie antiche. Le sue tele sono sudari entro cui si avvolge e si distende un colore che non è mai colore, di una luce che non è soltanto luce, di un tempo che non vuol essere nessun tempo. Tanto è più distante dalla materia tanto più questa pittura ha bisogno di segni forti che la distinguano.
Il contrario di quanto fa Alessandro La Motta nelle sue geologie cosmiche dove tutto vive e si afferma nell’intensità della materia, nel raddoppio del segno-colore, in quei forti sguardi nell’abisso della coscienza. I suoi lavori ribollono in un magma che è vita, intensità, forte passionalità. La sua pittura è una miccia accesa, una deflagrante terra ove il colore sembra prossimo allo straripamento e dove la luce offre il massimo di se stessa.
Gli strati di luce con cui Franco Nuti riavvolge i suoi telai rovesci sono sudari ammantati di ammagante stupore, di fragrante bellezza. Sono delicati velari dove il colore si ovatta e si riavvolge nelle pieghe del tempo, riannodando sentieri diversi, inquieti. La sua pittura è piuttosto qualcosa che non c è, che non vive i tempi e gli spazi di sempre, che non sente gli odori della vita, che non partecipa al battito della pulsione presente. È un sogno, un sogno trasfigurato, ma pur sempre sogno.
La testimonianza di Marino Rossetti è invece una sorta di tessitura acerba, di un intreccio di forme e di colori che si ricompongono in un ordine che è cifra morale, solidità strutturale. I suoi dipinti sono finestre aperte su panorami limpidi, tersi, riconducibili ad una serenità raziocinante. Gli andamenti delle sue fitte schiere di linee appaiono come progressioni all’infinito di un territorio nuovo dove tutto è perchè voluto e cercato.
Claudio Schiavoni che con Cucchi giovanissimo sparfi i suoi primi anni di lavoro nelle Marche, è un insolito e solitario attraversato della luce. Le sue superfici sono caratterizzate da segni incrociati, da macro e micro drammi vissuti nell’intensità e nella pienezza della sua esperienza di vita. Sono segnali di emergenza che si identificano con il pullulare stratificato di sintomi ed avversioni negative a questa vita, a questo tempo. Le croci nere su campi bianchi o la miriadi di minuscoli tratti di colore che si schiantano su superfici candide ed immacolate non vogliono essere altro che metafore e paradossi di un’esistenza accostata suo malgrado in modi e ragioni non volute e non sentite.
Erlene Santana ricompatta la sua pittura entro una sfera ricca di grandi suggestioni formali. Il suo tratto è minimo ma intenso. I suoi spazi variano al variare del discorso. Sono come tasselli ispessiti da una luce che si propaga più per sovrapposti congiunti che per dilatazioni progressive. La sua esperienza romana l’ha riportata poi entro una dimensione classica del fenomeno artistico ove tutto è regola perchè già difformità.
Le geometrie asimmetriche di Fadhil Ukrufi sono frammenti di un discorso interrotto, spezzoni di una conformità squarciata per sempre, non ricomponibile, irraggiungibile. Il filo dei suoi pensieri si accovaccia sull’orlo di un precipizio insondabile, di un abisso drammatico ove non vive più la certezza della ragione, la stabilità del sentimento. La sua pittura avanza per campi pittorici in tensione, per strati geografici antitetici.
La scultura di Maria Wojcik è il simbolo dei simboli. Le sue masse scolpite nel legno rincorrono lontane fantasie surreali che nulla hanno a che fare con il tempo della storia. Esse sembrano piuttosto complessioni intellettuali, articolazioni lessicali di una dimensione del proprio essere. Culture tribali e racconti mitici si attorcigliano a questi assi scolpiti, introducendo nuovi sogni e nuovi ritmi, determinando fiabe riavvolte di colore.
Dal catalogo della mostra collettiva Dissimmetrica, 1991
Franco Nuti. Di Giuditta Villa
La ricerca di Franco Nuti rimanda costantemente ad una analitica “referenziale” dove la rappresentazione è subordinata ad un incessante movimento pendolare fatto di contrazioni ed espansioni, di evidenze e nascondimenti.
Già nelle Architetture, lavori non presenti in questa mostra, il Sé (l’Essere) dell’artista, come nucleo costante ma mirabilmente allontanato, del contenuto dell’opera, è celebrato attraverso una materia “ricca”, specchio di una forte carica di energia presente nella selezione oggettuale operata. Quella materia che parimenti selezionava pregevoli brani pittorici insieme ad identificazioni formali è oggi in gran parte ridimensionata a favore del secondo aspetto o più precisamente convogliata verso una sorta di metro interiore, una misura costante, non sempre agevole da identificare.
Rigorosamente “Senza Titolo”, quindi privata di qualsiasi intento nomenclatorio nei confronti della realtà, la ricerca di Nuti, ciò nonostante è altresì indissolubilmente legata alle cose, agli oggetti del mondo esterno, del quotidiano.
“Gli oggetti della terra ci restituiscono l’eco della nostra promessa di energia” – scriveva Bachelard in “La terre et les rêveries de la volonté.”
Gli oggetti del vivere, come brani di una lettura, come segni aggregati, sono raccolti in una materialità che ha in sé tutte le tracce della vita.
Sono segni fermati nella loro veste essenziale, non tautologica, sono segni di un passaggio circostanziato dalla coesistenza di drammaticità del senso e della materia che danno vita ad un campo d’azione in cui le forze si consumano.
Nell’orizzontalità di un vissuto irto di ostacoli si inscrivono innumerevoli i quesiti morali ed in qualche modo etici: Forma, Contenuto, Tecnica adottate acquistano una vibratilità materica nelle quali si specchia la Vita.
Categorie ambivalenti si proiettano su superfici che introducono nuove possibilità allo spazio incapace di una rigorosa centralità: serenità e tensione, analisi e intuizione, ansia e caparbietà, desiderio di comprensione e rifiuto del compromesso sono infatti i nuclei di una poetica nella quale è sempre assente la drammaticità, perché è il luogo dove le idee si attorcigliano nella confusione.
Una forza coesiva, materiale e spirituale dà vita ad un campo dinamico uscendo dagli schemi: la pittura si contamina e si arricchisce con la scultura, l’esterno dell’opera diviene l’interno e viceversa, dove l’oggetto si configura sempre come penetrazione dell’immanente.
Rappresentazione oggettiva ed evanescenza nei confronti della realtà sono i luoghi del contendere nei quali verifica la propria fisicità con la carica emotiva e simbolica in esso contenuta. Nel lavoro “autobiografico” di Nuti il significante interagisce sempre con il significato, il reale, come dato oggettivo si confronta con la “risonanza” del ricordo, in cui “visibile” ed “invisibile” come “essenza” e “sembianza” corteggiano la vita attraverso gli oggetti che la popolano.
Se la pittura si trova ad “affondare” nella bidimensionalità per trovare la sua vocazione tridimensionale, ecco che non disdegna la lacerazione, gli strappi, gli involucri delle carte e delle stoffe che si avvalgono di un supporto rovesciato, dipanando teoremi spaziali in cui la superficie è fatta essenzialmente di inciampi, di cadute e di risalite proprio come la vita. L’accelerazione del tempo contemporaneo risucchia nel passato anche il futuro oltre al presente, già oggetto di uno spazio trinitario nel quale si consumano le tre sfere del tempo.
C’è qui, nei lavori di Nuti, un andamento ametodico del tempo, in cui momenti del vissuto entrano in collisione con una sorta di “raffreddamento” delle essenze sprigionate dalle cose. Ridondanza degli oggetti e delle materie, essenzialità dei concetti, sovrapposizione costante dei linguaggi attivano sinergie multiple dove anche il disagio appare come un’impalpabile qualità che investe le cose.
Gli iati, i vuoti non recuperati ad un ordine fisico e spirituale sono persi per sempre, segmenti abbandonati di una coscienza non subordinata agli schemi, anche la fragilità e l’incertezza divengono i presupposti principali per la libertà e la forza del pensiero.
Dal catalogo della mostra personale Franco Nuti, 1993
Franco Nuti. Di Luigi La Rosa Gravina
Continuando a scandagliare quel misterioso e variegato territorio che comprende il complesso rapporto tra artista e materiali, un nuovo e non meno interessante spunto di riflessione può venire dal lavoro di Franco Nuti.
Dell’artista vengono presentate opere realizzate negli ultimi due anni, risultato di una ricerca che vede la tela da pittore, nobile e vetusto archetipo del “fare arte” impiegata quale supporto, scrigno o solo dissacrante mezzo per “trattenere” i simboli della sua esperienza umana ed artistica.
Prendono vita, in tal modo, forme di espressione che sperimentano nuovi rapporti e sistemi compositivi pur non abiurando nessuno dei mezzi tradizionali.
Un lavoro di pensiero, prima di tutto, quello di Nuti; rigoroso e profondo nonostante l’apparente casualità dei suoi assemblaggi. Un lavoro di struggente e malinconica ironia che lo allontana da una prima, frettolosa connotazione neoespressionistica, collocandolo decisamente in quella tradizione artistica essenzialmente solare, mediterranea che gli permette di espandere l’impianto autobiografico delle sue opere fino alla comprensione ricca di passionalità ed infinita tenerezza dei disagi, il disordine, la confusione che raccontano le nostre strade o i nostri sguardi, mai avulsi da un saggio, antico, nostrano fatalismo.
Dal catalogo della mostra personale Franco Nuti, 1993
Lo spazio dell'utopia. Di Lidia Reghini di Pontremoli
Il lavoro precedente di Franco Nuti era fondato su una permanenza estrema della rappresentazione: il quadro, in questo senso, era obbligato a trattenere una memoria visiva della realtà.
Macchie di colore opalescente lasciavano intravedere il vago ricordo di una forma. Il quadro, l’opera, in ogni caso, era obbligata a “riportare” i segni del passato, ad esprimere la natura di elementi conoscibili. Era l’estremo tentativo di razionalizzare il senso di un’immagine sfuggente, o forse soltanto un espediente per sfuggire la crescente tentazione dell’astrattismo proponendo gli “avanzi” di un dettato essenzialmente figurativo.
In quest’ottica, Nuti operava un drastico sistema di scelte, obbligando e vincolando gli estremi della propria sensibilità. La pittura in questo senso diveniva un momento di misura, di tragico, estremo conflitto.
L’opera trasmetteva, all’interno di un fitto reticolato ottenuto dall’increspatura della carta, un rimando di possibili segni, di probabili forme-ricordo. La struttura flessibile del disegno determinava una sorta di schema geometrico, un’elastica partitura “a gabbia” che designava la struttura fisica dell’opera: il campo d’azione su cui si sarebbe esercitato il colore.
In questo sistema la memoria della realtà era essenziale e veniva espressa da sedimentazioni successive che si sovrapponevano, si incrociavano sul piano frantumato della carta e della tela. Il rapporto di reciprocità tra gli elementi era assoluto e prioritario, veniva in ogni caso giocato sui due binari della materia: da una parte il rapporto tra il colore dilavato dall’acquarello ed il nulla, la zona non campita; dall’altra la tela e la carta.
I risultati di questo binomio dialettico si misuravano in chiave evocativa, con forme che suggerivano il senso di eventuali, possibili presenze: visioni lontane, arcaiche, disperse nella realtà opalescente e biomorfica del colore.
Oggi assistiamo ad un ribaltamento: la pittura come sintesi estrema, come risultato di un processo interiore diventa sintomo di un movimento coerente, che attraversa trasversalmente tutti gli strati e gli stati della pittura.
Nuti sembra quindi abbandonare le logiche e le attitudini che fino a questo momento avevano governato il suo lavoro; viene così a cadere una certa fissità, una possibile ripetizione di moduli e maniere in virtù di un fare più aperto, disincantato e disinibito. La stessa mano accetta di scoprire e praticare più possibilità.
Inizia così il grande viaggio nella terza dimensione: una pittura che non accetta più di venir relegata ai canonici vincoli della bidimensionalità, ma che anzi cerca il possibile scarto. Così carta e colore superano in spessore la piattezza della tela/superficie: tentano il balzo in avanti. Una possibilità estrema che il colore ha è proprio quella del “farsi” scultura: Nuti azzarda e persegue il filo di quest’ipotesi.
Ma la fissazione del colore, il suo stesso distendersi a più riprese sulla tela, non basta.
Anche la carta entrerà man mano nel gioco complesso dell’osmosi: non più increspandosi ma anzi inspessendosi, creando delle vere e proprie barriere. Viene così garantito l’allestimento di una trama, di un reticolato complesso. Nuti accelera le dinamiche di questo procedimento. L’accelera e l’amplifica propagandolo o sospendendolo in rapporto alle densità fisiche del colore. E’ quindi evidente quanto la carta offra all’artista la possibilità di sottolineare ed evidenziare le logiche costruttive del suo lavoro: la carta tenderà a divenire spessore in assenza del colore e viceversa. E’ questa la logica saliente di un bilanciamento. In questa situazione la pittura è ancora in grado di serrare, garantire allo sguardo la presenza di una “memoria”. Ma non più come evocazione quanto piuttosto come orma, traccia di un passaggio avvenuto sulla tela. La costruzione in questi termini è essenzialmente metaforica, là dove tutto concorre alla formalizzazione di un simbolo, di un segno: il fantasma di un ricordo che si trincera proprio sotto gli strati pesanti del colore.
In Origini (1989), come in altri lavori (Isola ri-costruita, 1989), ogni sovvertimento, ogni evoluzione cela il segno tangibile di altri possibili significati, la sagoma di un’altra probabile realtà. Spetta allo sguardo attento e ravvicinato scoprirne a fisionomia. Dunque, forme che nascondono altre forme: la volontà di scrivere, cancellare per poi ricordare e riscrivere di nuovo. Così all’infinito.
E’ come se ci trovassimo di fronte ad un qualcosa di tellurico: un magma che ribolle dentro gli strati del colore, una consistenza fisica che sovrintende e definisce la formazione dell’immagine.
l processo eversivo e di costante avanzamento che sta attraversando il lavoro di Nuti non è nient’altro che un sintomo, il segno più evidente di una differente concezione del mondo e dello spazio.
Questo significa, in termini pratici, offrire alla pittura la possibilità ultima di un ribaltamento, di una metamorfosi prospettica e dimensionale.
Non è un caso che proprio in tempi recenti Nuti abbia avvertito l’impossibilità di perseguire una strada unicamente fondata sulla disciplina del colore e della pittura. Si è dato dunque dei traguardi, che formalmente sono divenuti nel tempo dei veri e propri obiettivi. Obiettivi che sempre più hanno avvicinato la struttura del quadro ad un elemento scultoreo, architettonico. L’opera d’arte non è più poesia, frammento, quanto piuttosto realtà quotidiana, corpo che si inserisce nel paesaggio urbano per entrare nell’orizzonte umano.
Lo spazio dell’utopia si è dunque colmato.
L’utopia di praticare la pittura con occhi e mani da scultore. Rimangono le enormi tele che non contraddicono la logica dei piccoli formati, ma anzi ne costituiscono una differente applicazione spaziale.
Questo significa poter attraversare liberamente il luogo del piccolo e del grande formato. E’ un cammino che si compie esplicitamente, senza mediazioni di sorta, accogliendo e serrando le differenti consuetudini spaziali.
Opere come Le stanze… della felicità (1989, cm. 120 x 170) e come Senza titolo (1989, cm 30 x 60) ribadiscono il medesimo concetto: imporre la legge liberatoria del colore e dello spessore. Ma non solo.
In lavori precedenti come Il pescatore (1987), Nuti si concentrava sull’allestimento organico di uno scenario uniforme: i pannelli, cioè le tele, avevano un “senso”, una sequenza. Questo ha significato per l’artista la contraddittoria volontà di fissare il segno di una concezione dinamica della pittura nello spazio.
All’interno di questo sistema rigidamente razionale, tutto aveva un ordine ed ogni parte garantiva una funzione: offrire la visione complessiva dell’opera.
La caduta di fissità, la sgretolazione era un processo in divenire, coerente e formalizzato: Nuti dava cioè un ordine, scandiva e definiva la logica della frantumazione. I piccoli pannelli di Senza titolo (1988) si ordinavano in una sequenza di 1-2-3, orizzontalmente, come momento di un racconto pittorico omogeneo.
Oggi assistiamo ad un differente atteggiamento che non nega le premesse del passato ma bensì si costituisce come una logica conseguenza.
Nuti avversa i risultati dell’unicità: l’opera diviene qualcosa di significativo attraverso la commistione delle differenti parti. Poco importa ove si dispongono i singoli elementi. Quel che conta è l’effetto finale, l’allestimento scenografico di uno spazio parateatrale, una prospettiva capace di indurre e trattenere gli elementi della memoria.
In questo senso l’opera è in continua espansione, è un corpo che pulsa, caldo, capace di sgretolare ed infrangere ogni eventuale categoria di unicità. Là dove unicità diviene sintomo di staticità. Ecco quindi che la tela assume un diverso assetto, arrovellandosi, accostandosi l’una su un’altra, senza ordine apparente. L’unica via praticabile è dunque quella dello scarto: scarto spaziale e prospettico, che catapulta l’opera fuori delle canoniche dimensioni orizzontale/verticale.
Il quadro, in questa situazione, negherà la propria fisionomia per assumerne altre, diverse. Non più quadro ma oggetto in costante divenire, oggetto/scultura multifunzionale. Forma che declina ogni eventuale “piacere” dello sguardo per divenire piuttosto elemento scomodo, ingombrante, dal formato mal esponibile.
In questo senso il quadro non è più un vanto, lo strumento capace di solleticare l’ego dell’artista, ma piuttosto una struttura perturbante, incombente per lo sguardo: la sua fisionomia uccide qualsiasi eventuale mediazione di comodo. Nega, in parole povere, i significati e le logiche della percezione.
Il percorso proposto dall’opera va dall’accostamento alla repulsione, alla rovina. Quest’itinerario sovrintende la genesi di questi ultimi lavori che sembrano proporre una differente fisionomia coniugata con una felice, disincantata esibizione dei mezzi extrapittorici.
Enormi tele si accalcano, si assommano, si frantumano spazialmente in una sorta di dislessia visiva. E’ questa la sfida che Nuti impone allo sguardo, il segno di una visione data per frammenti improvvisi.
E’ ormai lontano il giorno del blow-up. Il giorno micidiale dell’avvicinamento, dell’ordine precostituito. Quel che conta oggi è solo la sperimentazione dinamica dell’inferenza delle parti in una porzione di spazio.
Opere come oggetti, come elementi di anti-seduzione. Le colate pesanti del colore strabordano (Finestra, 1989), non sono volutamente contenute. Le increspature sempre più evidenti della carta costituiscono l’orografia dell’opera, creano una barriera, una sorta di schermo tra l’occhio e il colore.
Una negligenza non casuale organizza dunque il ritmo della rappresentazione in pause e sequenze non ordinate tra gli improvvisi squarci di bianco che si aprono nella cortina pittorica.
Questo significa per Nuti un nuovo atteggiamento nei confronti della pittura: la coscienza del mestiere; è questo il senso estremo di una conoscenza e consapevolezza delle tecniche, della interazione tra colore e materia, tra strati e emozioni. Ciò permette l’apertura e il libero transito. Una circolazione senza frontiere tra gli stili e i modi della pittura.
Opere come oggetti, senza per questo esaltare una metafisica della materia. Anzi. Carte, colori, spessori vengono usati come impianti neutri, tecniche che favoriscono e determinano gli esuberanti sensi di una forma pittorica che si muove liberamente nello spazio.
Non è più la pittura a fingere la realtà, ma è la realtà di un nuovo “oggetto” che finge la pittura.
Dal catalogo della mostra personale Lo spazio dell’utopia, 1989/90
Franco Nuti. Di Lidia Reghini di Pontremoli
Dopo aver esplorato le qualità fisiche di una pittura eterea, qualificata da una serie di rapporti cromatici mutevoli, oggi Nuti tende ad approfondire i dati fenomenici di una concezione pittori ca più sostanziale, legata cioè alla robustezza di segno e colore.
Un impianto senza dubbio più saldo caratterizza infatti i lavori degli ultimi due anni; li qualifica sostanzialmente come materia, pelle aderente a varie forme che si intuiscono all’interno di un colore che tende sempre più a stabilirsi autonomamente come linea direzionale della composizione.
Barlumi di figurazione cedono così il passo all’uso di una materia cromatica astratta che tende a calibrarsi come peso e spessore attraverso il connubio delle carte.
Carte che si confondono sul tavolo della pittura. Carte che non scivolano via, ma anzi si increspano, si avviluppano, si inter secano volontariamente a creare una trama, un ideale reticolato attorno al quale s’arrovella il ritmo alterno delle parti figurative e del colore.
Una sorta di crinale marca l’opera in due distinti livelli che corrispondono mentalmente a due differenti visioni della forma: il primo vede l’azione delle zone di colore che cercano l’andamento di un ritmo autonomo e diversificato; il secondo cerca l’instaurarsi di un differente rapporto con le materie prime (carta e colore) tentando di ricordare un ricordo, visualizzare uno scorcio di dejavù colto dal passato.
Unico denominatore di questo particolare trattamento è la comune mentalità processuale e costruttiva. Ma non è certo il senso di una costruzione lineare, che si svolge cioè seguendo l’andamento di precisi punti d’orientamento; bensì si tratta di un’opera zione intuitiva che si svolge all’interno degli strati della materia, co me a far affiorare i lineamenti della forma futura.
Accade così che la costruzione si sviluppi e si deconverta in maniera eversiva, al di là delle aspettative, drasticamente oltre i sensi di una logica corrente.
Ma non solo. All’idea stessa del costruire per zone di carta e colore. Nuti oppone una sorta di negazione del lavoro, un meccanismo di difesa nei confronti dell’apparizione. È questo il senso del cancellare. Cancellare per poi ritornare a comporre i segni di una nuova unità che porta racchiuse le memorie di un segno passato. Come dire che quel che è stato si intravede e quel che si ve de tende a scomparire.
Questo funzionamento endogeno della pittura, mostra in maniera inequivocabile i dati della propria dinamica: le singole zone non sono solo scandite dalle differenti intensità cromatiche, ma anche dalla particolare struttura fisica offerta dall’insieme, che avvicina l’opera alla fotografia.
Singoli pannelli dividono l’opera in “zone”, come fotogrammi ideali che verranno successivamente posti in sequenza.
Si compone così ancora una volta il gioco alterno delle parti.
Lo sguardo viene posto tanto non sull’unità globale, quando piuttosto sul dato parziale che acquisterà significato soltanto in rapporto alle altre zone. Si può dire quindi che il pannello nasca e si sviluppi autonomamente ma trovi un’intima, peculiare qualifica zione soltanto in rapporto ad una globalità pittorica sancita dall’assetto finale delle varie parti sequenza.
Questo assestamento non è accorpamento, ma anzi ulteriore ricerca di un ritmo, di un ennesimo funzionamento dinamico tra le parti ed il tutto. Non a caso Nuti cerca un ulteriore ritmo andamentale spaziando, sospendendo con maggior respiro, i pannelli a distanza. Come ad avvalorare i sensi di una pittura parziale e globale al tempo stesso. Comunque, rimane saldo il rapporto tra la rappresentazione e gli strati di colore. Un rapporto che apparentemente è limpido e solare, ma che ad uno sguardo più attento, lascia intravedere la natura di un coinvolgimento particolare, un rovello che denuncia apertamente il rapporto drammatico con le cose e con le realtà del quotidiano. Un rapporto oscuro, carico di presagi e di figure.
Il campo pittorico è apparentemente calmo e disteso. In realtà è calcato da un ritmo ossessivo che conduce l’artista e frantumarsi per frantumare campiture d’azione successive. Involucri di colore si dilatano e si respingono, oppongono una resistenza fisica allo sguardo esprimendo così lo status di una materia carica ed in continua ebollizione sotterranea. Una pittura esibita ed al tempo stesso occultata, dipinta e cancellata, cercata, respinta e vilipesa. Una pittura che non cerca la via più semplice ma tende ad inseguire piuttosto le asperità di un territorio esistenziale impervio.
È proprio questa pittura che conduce l’artista al limite estremo della visibilità, acuisce il suo desiderio dell’essere. Di crescere e sviluppare, cioè, la propria sensibilità all’interno di un urto di forme.
Da qui l’uso di una tecnica apparentemente garbata, quale l’acquarello, che Nuti riesce a trascinare in un gorgo di toni cupi e sordi sottolineati della pesantezza dell’acrilico.
Ombre e memorie drammatiche si ricavano dal segno di impronte che non contengono segreti mistici o simbolici, quanto piuttosto la visione di un’inquietudine che è sempre più difficile da sostenere e vivere all’interno della propria ricerca esistenziale e pittorica.
Dalla brochure della mostra personale Franco Nuti, 1989
Franco Nuti. Di Giulio Tamburrini
Franco Nuti esordisce con questa sua personale avendo tutte le carte in regola.
Il contenuto, la forma, la tecnica scelta. La tecnica usata è l’acquarello, a volte misto ad acrilico su carta riportata e lasciata aggrinzire, sicché con questa vibrazione materica egli fornisce un supporto diverso e sensibile al suo segno, al suo messaggio.
Franco Nuti per comunicarci la sua proposta artistica ha scelto la sua via, come per una soluzione di un problema intimo; la veggenza serena e aperta su una realtà esistenziale sfrondata di retoriche e di fastigi inopportuni. Le trasparenze introspettive dalle albe verdi, che intonano molte sue opere, e le traslucide presenze sono serene nostalgie di un mondo migliore, che non è quello che ci sta dietro le spalle.
La poetica di Franco Nuti passa attraverso i Macchiaioli e Bacon e sfocia in una chiarezza sensibile e delicata come il suo clivaggio umano. Su quella carta incollata e aggrinzita Nuti appone la sua cromatica di un effimero grande e importante come la vita.
Nella sua opera non vi è drammaticità e se proprio la si voglia intravvedere essa è accettata dall’artista con la superiorità di una maturità interiore ormai sulle vie della completezza, mentre la sua “macchia” si fa dialogo silente e sommesso tra le albe della materia, dove il diafano e l’indefinito coinvolgono il fruitore in una dimensione di veggenza.
Come nell’ansia e nell’attesa di un’ascesi, che non passa attraverso i crogioli di lamentosi masochismi, ma per la forza morale del coraggio, che è ragione e istinto per le vie del desiderio di capire, come quando all’alba il cuore è teso e tutte le strade conducono verso l’apparizione del sole.
È indubbio comunque che la fruizione dell’opera di Franco Nuti crea un’attesa intima per una risposta che forse non verrà, o quantomeno non verrà dall’esterno.
Dal catalogo della mostra collettiva Frank, Nicolaesku, Nuti, 1988
Franco Nuti. Di Paolo Dalpasso
Il linguaggio pittorico di Franco Nuti è veicolo non solo della sua essenzialità, il colore, ma di uno stridore, che appare come opposizione tra l’incanto della fabulazione dipinta e la realtà.
La pennellata di Nuti ha patito molto nel suo divenire la conquista di uno spazio logico formale, certamente obbiettivo questo non facile nello squarcio dell’orizzonte della vita umana. Le tematiche affrontate sono tutte lievitate da un’interiorità conquistata attraverso un solido taglio della vita e una sensibilità ingenua, sempre sorprendente e fresca, che riesce a riportare il tratto emozionale del pittore non solo ad una leggibilità, ma lo fa salire ad una sintesi composta, che ha in sé il senso della diacronia.
I paesaggi, le marine, le introspezioni sono momenti rappresentati con l’intensità dell’immediatezza; il colore profonde tra le pieghe della carta, realtà frantumata, il superamento della medesima attraverso scorci luminosi, e a volte cupi, ma che in ogni caso scandiscono tappe e conquiste noetiche, liberate dai vincoli della ragione positiva, protese alla ricerca dell’abbraccio.
Dal catalogo della mostra collettiva Frank, Nicolaesku, Nuti, 1988